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Channel: Antimafia – Giulio Cavalli
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A Roma la Dia si prende il Caffè Fiume

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Caffe-FiumeTra i beni confiscati definitivamente anche il famoso Caffè Fiume a Roma, a fare compagnia agli altri beni mobili e immobili sequestrati a maggio di quest’anno e tutti riconducibili all’imprenditore Saverio R., considerato elemento di vertice della cosca di ‘Ndrangheta Fiarè-Razionale e condannato per mafia.

Gli uomini del Centro Operativo DIA di Roma hanno infatti eseguito questa mattina, presso la capitale e nella provincia calabrese di Vibo Valentia, il decreto di definitiva confisca, emesso dalla Corte d’Appello di Catanzaro, su richiesta della Procura Generale di Vibo.

Il totale del patrimonio confiscato ammonta a sette milioni di euro e comprende, oltre al famosissimo Caffè Fiume di via Salaria, a pochi passi da Via Veneto, e alla società omonima, anche un bar-ricevitoria e un appartamento a Vibo Valentia.

Quest’ultimo era curiosamente intestato alla famiglia dell’attuale Sindaco del Comune, Michele Pannia, che lo aveva venduto alla famiglia dell’imprenditore mafioso negli anni 80 senza mai effettuare il passaggio di proprietà, favorendo quindi l’aggiramento della normativa antimafia.

Quattro le società edili confiscate: le prime tre a Roma, ovvero la Roma Services srl, la Edil Consul Services srl e la Studiogi Edil & Money di Giuseppe Scriva srl, e l’ultima a Vibo Valentia, chiamata Gisa Costruzioni di Francolino Maria Grazia.

La confisca si estende anche ad un concessionario di auto, a due appartamenti, un magazzino e un terreno nella capitale, a dieci appartamenti nella provincia di Vibo Valentia, tre conti correnti bancari e per chiudere in bellezza, cinque auto tra cui una Porsche.

(fonte)


Domani a Tivoli con Gianluca Manca e Clementina Forleo

Caso Manca: un po’ di luce

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C’è voluto un pentito del clan dei Casalesi per dire quello che i familiari di Attilio Manca sostengono da dieci anni: che l’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) in servizio all’ospedale “Belcolle” di Viterbo non si è suicidato con una overdose di eroina, ma è stato “suicidato” dalla mafia. C’è voluto l’ex killer Giuseppe Setola – un pentito “autorevole” e “di spessore”, come viene definito da Antonio Ingroia, legale della famiglia Manca – per “movimentare” il fascicolo dei magistrati di Viterbo e per portare la Direzione distrettuale antimafia di Roma – coordinata dal procuratore Giuseppe Pignatone – ad aprire un fascicolo di indagini preliminari “modello 45”, inserendo il caso “nel registro degli atti non costituenti notizia di reato”, ovvero nel registro “nel quale raccogliere quegli atti che riposano ancora nel ‘limbo’ della non sicura definibilità, ma che postulano una fase di accertamenti preliminari”.

Detenuto nel carcere di Napoli, nei mesi scorsi Giuseppe Setola ha voluto incontrare i Pm palermitani Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia – i magistrati che si occupano della Trattativa, particolare, forse, non secondario – per riferire di avere appreso da un compagno di cella che la morte di Attilio Manca – avvenuta a Viterbo l’11 febbraio 2004 – è da collegare all’operazione di cancro alla prostata alla quale, nell’autunno del 2003, fu sottoposto a Marsiglia il boss Bernardo Provenzano.

Le dichiarazioni di Setola sono state secretate e trasmesse alla Direzione distrettuale antimafia di Roma e alla Procura della Repubblica di Viterbo. Pignatone ora si sta muovendo su due fronti: acquisire informazioni sull’attendibilità del pentito presso la Procura di Napoli, e acquisire gli atti dell’indagine dalla Procura di Viterbo, in modo da avere una visione completa del caso. Dall’ipotesi di decesso per overdose – su cui è stato imbastito il processo che inizia domani a Viterbo – si potrebbe passare all’ipotesi di omicidio di mafia. La competenza, a quel punto, spetterebbe alla Dda di Roma. “Ritengo di fondamentale importanza – afferma l’avv. Ingroia – le dichiarazioni di Setola, visto lo spessore criminale dello stesso. Ho anticipato al procuratore di Roma l’intenzione di depositare una richiesta formale di apertura delle indagini per omicidio di mafia in danno di Attilio Manca, a nome e per conto della famiglia”.

A quel punto andrebbero chiarite diverse posizioni: per esempio quella di alcuni “amici” barcellonesi, strenui difensori della memoria di Attilio quando si parlava di “suicidio”, acerrimi accusatori (con ritrattazioni incredibili che gli inquirenti, evidentemente, non hanno notato) quando si è ventilato un coinvolgimento di Cosa nostra; la posizione del cugino della vittima, tale Ugo Manca, organico alla mafia di Barcellona (diversi precedenti penali e una condanna a quasi dieci anni per traffico di droga, con assoluzione in appello), di cui è stata trovata un’impronta palmare nell’appartamento dell’urologo; la posizione dell’ex capo della Squadra mobile Salvatore Gava, secondo il quale Attilio Manca – nei giorni in cui Provenzano era sotto i ferri a Marsiglia – non si sarebbe mosso dall’ospedale “Belcolle”, circostanza smentita clamorosamente alcuni mesi fa dalla trasmissione “Chi l’ha visto”; la posizione di alcuni poliziotti che – al momento del ritrovamento del cadavere – hanno redatto il verbale di sopralluogo, scrivendo che la vittima non presentava segni di violenza in tutto il corpo (versione contrastante con le foto); la posizione della prof.ssa Danila Ranalletta, medico legale che ha effettuato l’autopsia, la quale nel referto ha ignorato lo stato del volto (ridotto a una maschera di sangue), del setto nasale (deviato), delle labbra (tumefatte), dei testicoli (enormi e contrassegnati da un evidente ematoma).

Da chiarire la posizione dei magistrati che hanno portato avanti l’indagine: dovrebbero spiegare, tra l’altro, perché Attilio – mancino puro – è stato trovato morto con due buchi nel braccio sbagliato, quello sinistro; perché per ben otto anni non hanno ordinato il rilievo delle impronte digitali sulle siringhe (siringhe ritrovate con il tappo salva ago ancora inserito); perché senza uno straccio di prova hanno insistito per dieci anni sull’ “inoculazione volontaria” della vittima; perché non hanno ancora spiegato alcuni presunti retroscena relativi all’esame tricologico (l’esame sul capello della vittima per accertare assunzioni pregresse di stupefacenti): i magistrati sostengono che è stato effettuato e che è risultato positivo; i legali dei Manca affermano che agli atti non esiste c’è alcun esame tricologico (accusando quindi gli inquirenti di dire il falso); perché non hanno richiesto alle compagnie telefoniche i tabulati relativi all’autunno del 2003 per stabilire se davvero – come sostiene la famiglia Manca – il medico era in Francia mentre Provenzano veniva operato; perché non hanno richiesto altri tabulati telefonici ritenuti “interessantissimi” e attualmente depositati presso il Tribunale di Messina.

Secondo Antonio Ingroia “si può immaginare che la decisione di uccidere Attilio sarebbe maturata quando questi, accortosi della vera identità del ‘signor Gaspare Troia’, avrebbe espresso il suo dissenso a determinati personaggi che avrebbero fatto da tramite fra lui e Provenzano”. Tutto da verificare ovviamente. Ma è un tassello che potrebbe incardinarsi fra altri due tasselli: il primo riguarda una frase sibillina pronunciata da Provenzano lo scorso anno, quando l’ex parlamentare europeo Sonia Alfano andò a fargli visita in carcere: “Signor Provenzano, ricorda il giovane urologo Attilio Manca?”. E lui: “Hama mettiri mmenzu autri cristiani?”, dobbiamo mettere in mezzo altra gente? Una risposta criptica che l’on. Alfano traduce così: “Dobbiamo coinvolgere altre persone (oltre a quelle già compromesse) che hanno protetto la latitanza del boss?”. Già, perché “Binnu ‘u tratturi” ha trascorso un pezzo della sua quarantennale clandestinità proprio nella città di Attilio MancaBarcellona Pozzo di Gotto, “zona franca” per boss come lui. Nel libro “Un ‘suicidio’ di mafia” dedicato alla strana morte di Attilio MancaSonia Alfano, supportata da un investigatore a quel tempo impegnato nelle indagini su Provenzano, svela che l’urologo avrebbe utilizzato una struttura privata di quella zona per visitare il signor “Gaspare Troia”. “Zona franca” anche per Nitto Santapaola, il cui covo segreto fu scoperto dal giornalista Beppe Alfano, ucciso per questo l’8 gennaio 1993.

Il secondo tassello riguarda Ciccio Pastoia, ex braccio destro di Provenzano, che nel 2005, intercettato dalle “ambientali”, parlò di “un” dottore che ha “curato” il boss corleonese. Si riferiva ad un medico che lo avrebbe visitato in Italia prima dell’intervento – diagnosticandogli il tumore – e che lo avrebbe seguito, sempre nel nostro paese, nelle cure post operatorie? Non lo sapremo mai, almeno non da Pastoia: don Ciccio è morto “impiccato” nel carcere di Modena poco tempo dopo. La sua tomba è stata incendiata nel cimitero di Belmonte Mezzagno dopo il seppellimento. Oggi forse potremmo saperlo da Setola. Intanto la Commissione parlamentare antimafia il 27 e il 28 ottobre sarà a Barcellona. Primo argomento in agenda: il caso Manca.

(fonte)

RadioMafiopoli 26, giudice Forleo: “Cacciata appena ho iniziato a indagare su dei parlamentari”

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Per la nuova puntata di #radiomafiopoli abbiamo incontrato il giudice Clementina Forleo che torna a parlare in pubblico a Tivoli dopo un periodo di assenza.

E, al solito, pronuncia parole intense:

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Caso Manca: a Viterbo va di scena una farsa

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2Fuori dal processo i familiari di Attilio Manca, giovane urologo trovato morto in circostanze misteriose a Viterbo il 12 febbraio 2004. Dietro richiesta del pm Renzo Petroselli, il giudice Terzo ha infatti escluso dalle parti civili la famiglia Manca, rappresentata dai due legali Antonio Ingroia e Fabio Repici. Di fatto i familiari avevano facoltà di essere ammessi come parte civile al dibattimento, secondo il giudice, esclusivamente per il reato di omicidio colposo. Reato che però è ormai caduto in prescrizione, mentre l’unico che verrà contestato in aula sarà quello di cessione della droga che ha ucciso Attilio.
“E’ una vergogna inaudita – ha protestato l’avvocato Fabio Repici – Il degrado della giustizia sta arrivando a livelli cosmici e irredimibili”. Il legale difensore ha dichiarato che “l’atteggiamento tenuto ancora oggi dal pm Petroselli è la conclusione coerente dell’operato con il quale, dal momento del rinvenimento del cadavere di Attilio Manca, il pm ha dedicato tutti gli sforzi a processare moralmente il defunto trascurando di fare quel che doverosamente avrebbe dovuto al fine di ricercare la verità”.

Sul caso Manca sono molti ancora i tasselli mancanti che le precedenti indagini non hanno messo davvero in luce. Come il fatto che Attilio, urologo di innegabile fama, si trovava a Marsiglia proprio nello stesso periodo in cui il boss Bernardo Provenzano, allora latitante, vi andò per un’operazione alla prostata. Ben più di una coincidenza, secondo i familiari, che avrebbe portato il giovane medico alla morte, inizialmente archiviata come suicidio per overdose. Ma tante cose ancora non quadrano: come il fatto che la droga è stata iniettata nel braccio sinistro, mentre Attilio è sempre stato mancino, o che la siringa non riportava alcuna impronta, né di Attilio, né di altri. Indizi e circostanze che potranno essere esaminati in dibattimento anche per eventualmente vagliare la pista mafiosa, mai abbandonata dai familiari. Al processo l’unica imputata è Monica Mileti, accusata di spaccio per aver ceduto la dose di eroina ad Attilio.
I familiari saranno ascoltati dalla Commissione nazionale antimafia il 28 ottobre a Barcellona Pozzo di Gotto, durante una visita di due giorni nel Messinese.

Durissima la reazione di Angelina Manca, madre di Attilio che negli ultimi dieci anni non ha mai smesso di chiedere verità a una procura, quella di Viterbo, “che oggi ha ucciso mio figlio”, e lo ha fatto perché, ha detto in conferenza stampa, “non ha mosso un dito”, riferendosi ai magistrati che si sono occupati delle indagini, il procuratore capo Alberto Pazienti e il sostituto Renzo Petroselli “che hanno prodotto documenti falsi e detto cose false” solo per “mettere il marchio di drogato a un professionista serio come mio figlio”. “Oggi hanno dimostrato che la giustizia in Italia non è uguale per tutti” ha poi concluso con voce tremante e piena d’amarezza. La stessa che è trasparita dall’intervento dell’altro figlio Gianluca, fratello di Attilio, che ha parlato di una vera e propria “estromissione” della famiglia dal processo che si è finalmente aperto. “Oggi il tribunale di Viterbo ha scritto la pagina più buia della giustizia italiana” ma, ha poi sottolineato appellandosi ai presenti “dovete essere voi cittadini di Viterbo, voi cittadini italiani a prendere in mano una situazione così grave, perché evidentemente qualcuno non vuole che la verità venga fuori, allora dovete essere voi a pretenderla”. Certo è che, ha però precisato, “possono togliere la verità giuridica, ma non la dignità, nè ad Attilio, nè alla famiglia Manca”.
“Incomprensibile” e “aberrante” è per l’avvocato Antonio Ingroia l’ordinanza emessa all’udienza di oggi. “Aberrante perché ci sono fiumi di sentenze che dicono che la cessione di sostanza stupefacente è un reato che danneggia la salute di chi la riceve” e nel caso in cui si arriva alla morte “subentra il diritto dei familiari” di prendere parte al dibattimento in quanto “danneggiati indiretti di colui che ha ricevuto la sostanza”. “Io non credo – ha poi precisato – che ci troviamo di fronte a giudici incompetenti” perché oggi nel corso del processo “il giudice ha dimostrato fin dall’inizio di non avere nessun interesse a che si accerti tutta la verità sulla vicenda Manca”. “Sono cose – ha concluso Ingroia – che in 25 anni di carriera da pubblico ministero non ho mai visto”.

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Quelli che ci stanno rovinando, in Italia, sono gli obbedienti: un’intervista

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Si prepara a tornare in scena Giulio Cavalli, dopo una pausa artistica dovuta anche alla parentesi politica in Regione Lombardia. Lo fa con uno spettacolo liberamente ispirato alla vita di Marcello Dell’Utri, accompagnato dalle musiche di Cisco Bellotti, eseguite dal vivo. Lo spettacolo, insieme ad un romanzo, è una produzione sociale attivata su produzionidalbasso.com e conclusasi con successo. Il ritorno “molto teatrale” dell’attore, drammaturgo e scrittore di Lodi, partirà presto dal Nuovo Teatro Sanità di Napoli.

photo by  giuliocavalli.net

Marcello è un giovane e intraprendente siciliano, nato da una famiglia borghese, ma decadente, del centro di Palermo. Marcello e il fratello Alberto vivono in simbiosi una giovinezza di lusso apparente, mentre subiscono le difficoltà economiche di un padre che si ritrova fuori gioco negli ambienti che contano, per l’arresto di alcuni elementi a cui faceva riferimento. Per questo Marcello cresce con un insito odio nei confronti della magistratura, vista come la causa della decadenza famigliare. Silvio è uno studente prepotente, egocentrico e scaltro che è stato educato dal padre ad una continua ossessiva ricerca delle scorciatoie ad ogni costo. Vive in un paese della provincia milanese, ma lo stesso giorno che ha l’occasione di accompagnare il padre nella banca in cui lavora, nel cuore della Milano bene, si innamora di questa città di eleganza, soldi e affari e decide di diventare, da adulto, un uomo a cui tutti sognano di stringere la mano. Vittorio è mafioso, figlio di mafiosi. Senza giri di parole e senza nascondenti anzi: con una venerazione assoluta per i codici medievali che gestiscono i meccanismi sociali e imprenditoriali di Cosa Nostra in Sicilia. E’ conosciuto tra gli amici per la sua abilità nell’esercizio della prepotenza che sia vocale, manesca o armata. Si diletta in missioni di prepotenza che lo rendono temuto e affascinante per molti e sviluppa un astio per la borghesia siciliana a cui aspira. Come la volpe con l’uva. Tutti e tre amano il calcio.

Perché hai scelto di attivare una produzione sociale per “L’amico degli eroi”?

Guarda, perché la produzione di uno spettacolo in un paese così complesso per le produzioni teatrali come l’Italia, complesso nel senso peggiore del termine, cioè ricco di condizionamenti politici, non è una cosa facile. Questi ultimi, bene o male, poi ne dettano la linea. “L’innocenza di Giulio”, spettacolo a cui io sono molto legato, ci ha raccontato perfettamente come essere ospiti di un teatro “stabile” nel circuito teatrale convenzionale, risultasse molto difficile per questioni politiche, che poi fondamentalmente sono delle beghe tra assessori, il “mestruo” di un dirigente dell’ufficio cultura, non c’è un isolamento concordato e organico. Allora, a questo punto, poiché il mio circuito è sempre di più fortemente politico, non partitico, e molte delle mie date non sono organizzate da un teatro, ma il teatro è solo il luogo che viene affittato da comitati cittadini o associazioni, ci siamo chiesti: perché non stringiamo un patto fin dall’inizio direttamente con loro? Inoltre, credo che andare in giro, come è capitato a me con il logo di Regione Lombardia su una produzione, sia anche abbastanza ipocrita. Purtroppo vieni macchiato come colui che ha intrattenuto rapporti con la pubblica amministrazione e che, avendo beneficiato di contributi, spesso a pioggia e non elargiti da una precisa scelta artistica, va in scena grazie a loro.

E tra l’altro se metti in scena uno spettacolo che racconta di “Stato e politica” potrebbe esserci anche un lieve conflitto d’interessi nel ricevere fondi pubblici…

Si, perché poi o tu mi produci “Andreotti” (L’Innocenza di Giulio, ndr) perché concordi sull’idea civile dello spettacolo o altrimenti non funziona. Il teatro civile solo in Italia è l’ammorbidente dell’indignazione generale. Nasce in realtà per “essere contro” qualcuno, ognuno con le proprie modalità. Il 99 per cento delle volte la postura di chi ti ospita, parlo di una pubblica amministrazione, è solo un attestato di fiducia per il teatro civile come se fosse avulso poi il tema che vai a trattare. Quando ho messo in scena “Linate” (monologo sul “disastro aereo” dove persero la vita 118 persone, ndr), spettacolo prodotto da tanti piccoli comuni, quelle amministrazioni concordavano con noi sul fatto che fosse stata una strage e non un incidente. Andreotti, invece, non concorda nessuno di quelli che lo hanno prodotto o che sono stati costretti a comprarlo, sul fatto che sia stato un criminale etico di questo Paese. Ti dicono che è giusto dare voce anche a Cavalli che lo considera un criminale.

photo by www.giuliocavalli.net

Quindi avevi bisogno del crowdfundig per poter raccontare di Marcello Dell’Utri?

Credo proprio di sì. Dopo aver fatto politica l’isolamento a livello artistico, intorno a me, si è acuito. Quello che mi ero costruito, e parlo anche delle relazioni economiche poi, è andato via via sparendo. Ma non per la posizione politica. Gli isolatori in Italia sono tutti coloro che hanno paura di dover prendere una posizione, non che non condividono la tua, e quelli che condividono il tuo punto di vista hanno paura di sclerotizzarsi su quest’ultimo. E’ banale tutto questo. Inoltre, la mia attività quotidiana di giornalismo o blogging, prende molto spesso posizioni nette. Ogni scritto, magari aumenta la fiducia e la vicinanza dei lettori ma fa crescere anche il sospetto da parte delle istituzioni. Quindi, anche se sarebbe molto più eroico dire di no, dal punto di vista economico, senza il crowdfunding, avrei fatto più fatica. Sarei dovuto scendere a un compromesso, anche taciuto o sottointeso. E poi, mi fa piacere sapere che c’è stata della gente, non necessariamente miei elettori, che la mia pausa artistica dovuta anche alla politica, l’ha vissuta con tranquillità e che si è resa disponibile nel partecipare con me alla produzione de “L’amico degli eroi”.

Credo ci sia un po’ di confusione su quello che artisticamente sei, forse proprio perché hai fatto politica, o perché fai un tipo di teatro particolare in Italia…

Perché qui abbiamo bisogno di categorizzazioni semplici e facilmente leggibili. I teatranti non mi amano, al di là delle mie posizioni politiche, dicono che Cavalli è un giornalista. Se fai l’attore devi fare solo l’attore e così via. Se decidi di esprimerti su diversi fronti, quasi nessuno ha le chiavi di lettura per osservare se c’è una coerenza di base, un filo rosso.

La produzione, comunque, comprende oltre allo spettacolo anche un libro…

Si, sembra che in questo Paese ci sia una guerra tra editoria tradizionale ed “editoria a km 0”. Perché devo essere costretto a scegliere? C’è il Cavalli scrittore, quindi romanziere, e allora il mio libro uscirà con “Rizzoli”, ad esempio, e quella è una strada che mi interessa percorrere. Poi c’è il libro che invece nasce da un mio spettacolo e che inevitabilmente non sarà mai un romanzo, perché nascono insieme. E quando le persone mi chiedono se lo spettacolo è tratto dal libro, io rispondo che non lo so. Questa è una semplificazione che abbiamo noi operatori culturali e penso il pubblico non abbia. Il mio poi è un teatro che va molto letto, è poco recitato, vado in giro a fare lo spettacolo per promuovere la parola. Sono fratelli spettacolo e libro, secondo me.

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Ma quando andrà in scena “L’amico degli eroi”?

Entro la fine del mese dovremmo essere pronti. Saremo a Napoli e sarà una sorta di “numero zero” al Nuovo Teatro Sanità, poi cominceremo a girare l’Italia.

Perché hai scelto di fare teatro civile?

Dario Fo mi dice sempre che noi teatranti facciamo sul palco quello che avremmo dovuto fare nella vita. Probabilmente io nella vita avrei dovuto fare il giornalista d’inchiesta e quindi uso il palco per questo. Ho sempre sofferto la mancata contemporaneità del teatro italiano. Mi annoia tutto ciò che è elegiaco, quindi ho sempre pensato che il teatro, con lo spettacolo e i suoi spettatori riuniti, dovesse avere la valenza di un’agorà e dovesse essere “sul pezzo”. Ad esempio, mi capitava spesso di discutere dell’andreottismo e mi chiedevo perché queste discussioni molto spesso ricche e stimolanti, non dovessero andare in scena… Poi, purtroppo, la mia vicenda privata mi ha spinto ad una certa specificità anche nei temi, che però sono quelli che amo…

Quindi l’aver ricevuto minacce mafiose e l’essere diventato tuo malgrado testimonianza hanno solo accentuato la voglia di approfondire certe tematiche?

Bè, sì, ma penso che avrei fatto gli stessi spettacoli, forse sarebbero stati più puliti dal punto di vista scenico perché avrei avuto meno ansia di difesa sul palco. I temi però sostanziali anche oggi sono questi: corruzione, criminalità, uno Stato che non è credibile e soprattutto un Paese a cui sono stati sottratti i termini per riuscire a capire e raccontarsi ciò che sta accadendo. “L’ amico degli eroi” è un mio ritorno molto teatrale, dentro non c’è ansia di raccontare la mia storia declinandola su questa storia, capisci? Quindi è meno documentale di quello che si aspettano, non ci interessa raccontare gli episodi che indicano come colpevole Dell’Utri, c’interessa raccontare un’umanità di cui Dell’Utri è paradigma e che su ampia scala e con diverse potenze si esprime nella quotidianità.

All’inizio della tua carriera, ti saresti aspettato di andare incontro ad una vicenda così complessa personalmente e professionalmente, scegliendo questo tipo di teatro?

Sai, il teatro civile è complessità. E’ raccontare un qualcosa sotto una visuale talmente inaspettata da poter riuscire a scoprire lembi di quella storia che ci sono sempre sfuggiti. E’ quindi inevitabile che i protagonisti di quei lembi, all’interno di questa complessità, non siano felici. Però non vedo differenza tra il proiettile spedito o la querela promessa, cioè non mi ha colpito di più la minaccia mafiosa rispetto ai detrattori organici con cui mi trovo ad avere a che fare. E me lo aspettavo, si. Del resto, quando ho scritto “Linate”, in parte abbiamo scontentato anche i familiari delle vittime, a cui era stato dato in pasto come unico colpevole un controllore di volo, invece abbiamo scoperto l’esistenza di colpe istituzionali, questo è servito ad un confronto civile tra le parti. Per cui poi abbiamo ricevuto pressioni dai controllori, dall’aeroporto di Linate, dall’ENAC, una cozzaglia di scarti politici parafascisti, ricevuto minacce dall’ENAV, che non ha adempito ai suoi doveri come ente preposto a controllare la sicurezza… Poi c’è il parente del familiare che affronta l’argomento a cuore aperto e si confronta con te, l’ENAV ti fa scrivere dall’avvocato; il mafioso invece ha metodi più brutali nella forma ma non nella sostanza. Io ho ricevuto atteggiamenti mafiosi anche da illustri componenti di associazioni antimafia e li trovo più pavidi di quelli che almeno avuto il coraggio di mandarmi la lettera minatoria. Tutti questi tasselli creano la complessità e non sono altro che gli spigoli di un dibattito. Gli spettacoli li scrivo per aprire un dibattito, altrimenti scrivo un romanzo. Se uno spettacolo mette tutti d’accordo penso di aver fallito il mio obiettivo.

Non è difficile però gestire il tuo lavoro e le complessità a cui vai incontro? Quanto incide sulla tua vita privata?

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Indipendentemente dalle minacce, la storia ci racconta che giornalisti, attori, drammaturghi, politici, che hanno deciso di seguire un professionismo nel proprio lavoro, sono sempre ben consapevoli che la propria vita privata sia intrecciata anche con esso. Mi spiego, i nostri intellettuali sono stati testimonianza (quelli credibili) di ciò che hanno scritto o prodotto. Solo in Italia esiste la figura dell’intellettuale ad interim nei dieci minuti di parentesi del programma in prima serata. Nel bene o nel male, per esempio, una figura controversa ma che non posso non amare, è stata Oriana Fallaci. Lo stesso Dario Fo è Dario Fo. Non è tutti i suoi spettacoli ma è lui. Nella sua storia, la vita privata, e quindi nel suo caso Franca Rame, è una componente essenziale come il più bel quadro che ha dipinto o il più bel testo che abbia scritto.

In una conferenza con Nino Di Matteo, nelle scorse settimane, al Teatro Apollonio di Varese, hai deviato il discorso legato alla scorta. Perché?

Perché non mi interessa parlare di scorta. Ne sono stato travolto dalla cronaca e poi quest’ultima si è fossilizzata in una simbologia per me senza senso. Inoltre continuo ad essere vittima del fatto di essere sotto protezione, dal punto di vista del giudizio pubblico. Ma questo è solo un tassello, un elemento della complessità e affezionarsi solo a questo è pericoloso, per me e per il mio lavoro ma anche per l’opinione pubblica. La stampa dimentica che tutti i prefetti sono sotto scorta e dovrebbe parlare di questo. La normalizzazione avviene non solo perché si parla di una situazione come la mia, ma perché non si parla delle altre. In Italia ci sono 800 persone sotto scorta e testimoni di giustizia rischiano la vita perché non riescono ad avere una tutela. Tu diventi l’attore con la scorta, il fenomeno da baraccone. Io sono sempre stato aspramente critico con il “savianismo” che si è voluto creare intorno alla figura di Roberto Saviano. Ma attenzione, non ce l’ho con Saviano, credo solo che il fenomeno, per molti versi indipendente da lui, gli sia sfuggito di mano. Per esempio che si parli di Giovanni Tizian, come giornalista scortato, ma si dimentichi che il padre di Giovanni è stato ucciso dalla ‘ndrangheta, significa adagiarsi su una spettacolarizzazione che oltre a rendere il banale importante, non ti fa vedere tutto il resto. Se apriamo una discussione sul fatto che in Italia la potenza del teatro è quella di disturbare ferocemente i potenti, allora è un confronto che mi interessa.

Sei stufo di essere legato a questo tipo di discorso, vero?

Si, sono diventato completamente intollerante e nel momento in cui mi accorgo che la scorta diventa motivo di stima, quasi sempre questa cosa getta una luce inquietante sulla persona che ho di fronte, che sia il Presidente del Senato o che sia il direttore del più importante teatro italiano. E adesso siccome fa parte della mia natura e del mio percorso artistico comincio a dirlo.

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E invece la scelta di occuparti di politica direttamente, dopo l’esperienza in Regione Lombardia, la rifaresti?

Si, l’ho fatta da uomo libero. Ho vissuto le appartenenze solo come un dovere di carta bollata per posizionarsi su una seggiola all’interno del Consiglio Regionale e perché penso che nella mia azione politica ci sia molto della produzione artistica e viceversa. Inoltre non credo che la stima in un campo debba essere collegata direttamente all’altra e quindi ho sempre apprezzato coloro che invece hanno giudicato buono un mio spettacolo e non buono un mio gesto politico. Però la rifarei. Io penso che questo sia un Paese che ha bisogno come il pane di visioni e di visionari nella politica. Non credo nell’antipolitica ma credo nell’ultrapolitica. Poi certo ho partecipato ad una legislatura deprimente e ho pagato lo scotto intellettuale, ma anche morale ed economico, quindi se tu mi dicessi lo faresti oggi, credo di no, però se la domanda è ti ricandideresti nel 2010 in quella situazione sì, lo rifarei.

Ho letto che hai condiviso e apprezzato il discorso del senatore dimissionario Walter Tocci, in disaccordo con il governo sul Jobs Act…

L’intervento di Tocci per me è cultura. La politica ogni tanto raggiunge i livelli della cultura. E io vengo stimolato nello scrivere con più impegno sapendo che esistono persone come Tocci. Quelli che ci stanno rovinando, in Italia, sono gli obbedienti.

Il problema poi nasce quando i disobbedienti non riescono a disobbedire fino in fondo, concretamente…

Il problema è che i disobbedienti acquistano valore nel momento in cui vengono seguiti. Io, per esempio, di mafia, posso cercare di parlarne nel modo più intellettualmente onesto possibile e preciso dal punto di vista documentale, ma poi la mia voce diventa importante e potente nel momento in cui fa rete. L’intervento di Tocci si fatica a leggere oggi in questo Paese. Inoltre, sulla contestazione del fatto che abbia votato comunque a favore e poi si sia dimesso, io dico che ho una grandissima idea di partito, vedo il partito con lo spirito e gli stessi valori di una comune artistica parigina. Il fatto di votare a favore e dimettersi, lo trovo coerente. Molto spesso i disobbedienti hanno il cattivo vizio, e capita anche a me, di non avere rispetto delle idee degli altri, di pensare cioè che la democrazia sia gestita da un peso numerico e qualitativo ed è la cosa che li rende in generale una minoranza cronica di questo Paese. E aver rispetto dell’idea che ritieni pericolosa e sbagliata degli altri perché espressa secondo dinamiche democratiche io lo trovo un gesto rivoluzionario. 

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Si potrebbe parlare di Pippo Civati allora in questo discorso…

Pippo è diverso. Lui ha avuto tra le mani e ha tra le mani, anzi forse aveva, strumenti molto più “ficcanti” di quelli di Walter Tocci. Il voto contrario di Tocci avrebbe cambiato questo Paese? No. Se Tocci avesse votato contro e fosse rimasto senatore avrebbe sicuramente toccato di più la pancia degli elettori del Paese e la sua sarebbe stata vissuta come scelta più radicale, io invece rivendico la radicalità del suo gesto, che rinuncia alla propria posizione, senza cadere, cioè rispettando il “luogo” che non condivide ma in cui è stato. Comunque questo è un Paese che non si salva con Tocci o con Civati, Vendola e Landini. Si salva se riesce a creare un blocco sociale. Non esiste un blocco sociale. Ancora una volta è tutto molto a cascata, è il leader che crea la base e non il contrario. In questo la forma partitica utilizzata con intelligenza e con etica rimane comunque la forma migliore.

Trovo, però, sia diventato piuttosto difficile poter poi sperare in un vero cambiamento politico e culturale in questo Paese…

In un Paese normale l’uscita di Tocci avrebbe dovuto far cadere in termini percentuali il PD. E’ vero che oggi in un’epoca di minus habens essere normale ti rende un intellettuale, però ha caratura politica il suo gesto, in un’Italia completamente “analfabeta”, che ha bisogno ancora di sentirsi dire che Dell’Utri è un mafioso. Non capisco come si possa pensare, infatti, che il processo sulla trattativa arrivi a qualche condanna, quando chiunque abbia un’infarinatura giuridica, ma anche semplicemente democratica, sa che difficilmente ci si arriverà e che il compito di Di Matteo e la valutazione su Nino di Matteo non è il riuscire a farli condannare ma l’essere riuscito a mettere per iscritto ciò che ha messo per iscritto. Quelli che celebrano Di Matteo non hanno nemmeno letto ciò che ha scritto. Lo celebrano perché la persona a rischio è quella con cui solidarizziamo molto più facilmente, ma non sono all’altezza dei contenuti che sta proponendo.

La tendenza all’omologazione politico – culturale è preoccupante e oggi sembra non esserci una credibile alternativa…

Infatti era l’idea di fondo di Licio Gelli, l’ha detto anche Di Matteo, ma è stato colto molto poco nel suo intervento a Varese. L’omologazione del Paese ne facilita il controllo. Ma ne facilita il controllo da un’oligarchia. Dal punto di vista culturale l’omologazione berlusconiana e quella renziana hanno gli stessi meccanismi. Stessa cosa per quella grillina. Sull’appiattimento culturale della polita io penso che il Movimento Cinque Stelle abbia delle responsabilità enormi. Tanto che il personaggio più spendibile del M5S è diventato un andreottiano nei modi, nella dizione e nei contenuti, come Di Maio. Quindi, non mi sembra si siano prodotte grandi interessanti novità. L’alternativa potrebbe essere un movimento politico che abbia una solida base culturale. Il problema è che non ci sono basi e visioni culturali dietro ai partiti.

Dietro a L’Altra Europa, però, le visioni culturali ci sono, o forse c’erano eppure in parte è stata un’esperienza deludente…

Certo perché poi anche quando c’è qualcuno che è portatore di valori culturali diventa spesso un cerimoniere di stesso. Abbiamo però comitati di cittadini che grazie allo studio, alla conoscenza e a visioni rivoluzionarie sono riusciti a bloccare progetti immensi, quindi l’attività politica ai livelli più bassi è ricca ancora di contenuti. Costa moltissime energie in tutti i sensi concretizzare un vero progetto politico.

Intervieni spesso sul tuo sito a proposito di Expo 2015. Cosa ne pensi? Perché non sei favorevole?

Bè, Expo per me è innanzi tutto una follia dal punto di vista economico ed imprenditoriale, perché in un paese in crisi, spendere così tante risorse (e non mi si venga a dire che sono risorse che vengono dal fuori perché significa comunque avere sprecato energie per raccogliere questi fondi), è irrispettoso. Expo oggi è una mancanza di rispetto per la situazione dello stato sociale italiano. Una scelta politica che ancora una volta è riuscita a far coagulare centro destra e centro sinistra, dimostrando che gli inetti sono sempre concordi. Dal punto di vista criminale, invece, è stata una grande festa per i presunti antimafiosi, che ancora una volta invece ci hanno dimostrato di non aver il coraggio legislativo (perché la criminalità organizzata nei lavori pubblici si sblocca con una legislazione che sia più severa) e hanno dimostrato anche di non riuscire ad amministrare. E’ un fallimento ambientale, un fallimento della classe dirigente, Pisapia incluso, e ancora una volta è una scatola preziosissima in cui al momento si cercherà di metterci dentro qualcosa di commestibile.

photo by inviaggioconlamehari.it

C’è una forte incoerenza tra i temi proposti e le politiche adottate per l’organizzazione dell’evento. Se ne parla poco di questo, non trovi?

Sì, e quelli di Expo non si possono incazzare con noi che abbiamo un ruolo pubblico o con gli italiani perché sono troppo poco interessati ai temi. Io ho avuto un confronto anche pubblico con il capo ufficio stampa di Expo che mi accusava di non affezionarmi ai contenuti. Però se il modus operandi e la scatola sono così putridi, la gente ha tutto il diritto di fermarsi sulla soglia e inorridire lì, senza volere entrare. Capisci?

Mi dicevi che Expo è stata per te anche una festa per presunti antimafiosi. Non hai molta stima dell’antimafia in generale, vero?

No, per niente. Dei movimenti antimafia in Italia per niente. Del resto sai, Lea Garofalo è stata lasciata sola dalla più grande associazione antimafia italiana, Libera. Ci sono però molte personalità antimafiose anche più “semplici” come la casalinga di Castel Volturno o la pensionata coscientissima milanese. Abbiamo una ricchezza enorme. Soltanto non credo molto nell’immagine di rete che ci viene proposta e che in realtà rete non è. E’ solo una suddivisione di potere e di interessi.

Bè, la scelta di Rosanna Scopelliti, presidente della “Fondazione Scopelliti” e personalità di spicco dell’associazione antimafia “Ammazzateci Tutti “, di intraprendere l’attività politica è stata molto discussa…

Non me la sento di dire che Ammazzateci Tutti è stata un’impresa fallimentare perché lei si è candidata. Ho conosciuto ragazzi che da giovanissimi hanno intrapreso l’”hobby dell’antimafia” grazie ad Ammazzateci Tutti, però sai, siamo un Paese che ha una classe dirigente pessima in tutti i settori, quindi non vedo perché non si possa dire che anche nell’antimafia abbiamo espresso una classe dirigente non altezza degli impegni che ha avuto. Anche perché attenzione, si sceglie di essere classe dirigente, io decido di essere drammaturgo, scrittore e attore, e mi occupo di quello, ma qualcuno che invece decide di essere classe dirigente se ne deve assumere le responsabilità. Io in questo momento non mi assumerei mai l’onere di essere classe dirigente di nessuno, al massimo un buon produttore di contenuti per chi mi legge e per chi mi viene a vedere a teatro.

(fonte)

 

L’antimafia del “fare”

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Bravissimi gli amici di Avviso Pubblico a sospendere il comune di Caorle dai loro associati poiché il sindaco ha taciuto le minacce ricevute. Rispetto agli inclusivi che fingono di includere per dividere sotto traccia questa è una mossa alla luce del sole che prende le distanze senza bisogno di pubblica indignazione ma semplicemente applicando il dovere dell’opportunità.

La pavidità a sinistra rivenduta come garantismo

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Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza pubblicano un articolo per L’Ora Quotidiano che coglie in pieno il vento del “neogarantismo” del PD che, a partire dal processo sulla trattativa, sembra passare troppo inosservato. Da leggere tutto, prima di giudicare:

Galeotto fu il pamphlet scritto dal giurista Giovanni Fiandaca, e pubblicato sul Foglio di Giuliano Ferrara l’1 giugno dell’anno scorso con il titolo “Il processo sulla trattativa Stato-mafia è una boiata pazzesca”, che sostiene una tesi machiavellica e contorta: non solo la trattativa tra boss e istituzioni ci fu (e fin qui siamo tutti d’accordo), ma fu un’iniziativa legittima e addirittura doverosa, trattandosi dello strumento attraverso il quale lo Stato cercò di assolvere al suo obbligo fondamentale, cioè preservare la vita dei cittadini. Se davanti ai cadaveri ancora caldi di Falcone e Borsellino, lo Stato trattò con la mafia – è la tesi del libello – ebbe ragione di farlo allo scopo di salvaguardare l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale. “Basta con l’antimafia gridata – implora Fiandaca – oggi la lotta alla mafia va affrontata su basi legislative innovative, serie, che chiudano una volta e per tutte la stagione degli eccessi di contrapposizione”.

Da allora, nulla è più come prima. Le parole del giurista hanno avuto l’effetto di uno squillo di tromba che ha chiamato a raccolta quanti, in Sicilia ma soprattutto nelle alte sfere istituzionali, vedono il processo palermitano sulla trattativa Stato-mafia come il fumo negli occhi. Primo fra tutti Giorgio Napolitano. E difatti a Palermo, per discutere il pamphlet giustificazionista, si catapulta il suo più fido luogotenente, Emanuele Macaluso, totem vivente dell’area migliorista siciliana, ma soprattutto l’uomo che il generale Mario Redditi (ex capo di gabinetto al Sisde) intercettato al telefono con Mario Mori definì “il ventriloquo” del capo dello Stato. Non è passato che un mese dall’articolo del Foglio. Sotto le capriate di Palazzo Steri, sede della storica Inquisizione siciliana, Nenè Macaluso, il vecchio senatore comunista, battezza il trattato anti-pm di Fiandaca come la bibbia del nuovo garantismo di sinistra, infrangendo pubblicamente un tabù che da oltre vent’anni gravava sulle spalle del Pd, o almeno di quel pezzo di partito che ancora in qualche modo si sentiva erede del Pci di Pio La Torre: l’impossibilità di criticare le scelte della magistratura antimafia, senza incorrere nel rischio di essere immediatamente assimilati alla destra e alle tesi del berlusconismo. Dopo lo scontro scatenato da Napolitano con il conflitto di attribuzione nei confronti dei pm di Palermo, un’autentica manna per chi ha a cuore l’estraneità del capo dello Stato all’affaire che mette sotto accusa lo Stato.

L’alibi giuridico allo scontro politico

A sinistra, immediatamente, lo squillo è diventato fanfara. Allo Steri di Palermo si raccoglie un pezzo della cosiddetta intellighenzia siciliana: oltre all’autore del saggio sponsorizzato da Giuliano Ferrara, sul tavolo dei relatori c’è l’ex pm di Palermo Giuseppe Di Lello, componente dello “storico” pool antimafia di Giovanni Falcone, il segretario del Circolo socialista Alessio Campione (ex aderente alla sinistra del Psi di Lombardi e Signorile) e, nei panni del “portatore di dissenso” (ma non troppo) il giovane ordinario di diritto privato Luca Nivarra, che si professa orgogliosamente “comunista” e “marxista”. In platea, un occhiuto melting pot di accademici, studiosi, pezzi del fu Psi, metastasi del fu Pci, giornalisti, ex miglioristi migrati in fondazioni, ex socialisti riciclati in associazioni, circoli ed ex ideologi di professione ormai disoccupati. Risultato? In un festival di dotte citazioni filosofico-giuridiche, tra scrosci di applausi e urla di approvazione, il parterre dello Steri in tre ore fa a pezzi il processo di Palermo. Macaluso non perde occasione per attaccare i pm: “La questione è nel protagonismo: un processo a Mori pone chi lo affronta in una certa posizione particolare, quella di magistrato integerrimo. E una parte dei media concorre alla promozione di un eroe che osa sfidare i poteri. Penso che Mori è vittima di questa questione”. Persino Di Lello, ex senatore di Rc, icona della sinistra colta, fa sfoggio di scetticismo: “Quale sarebbe il filo che tiene insieme stragi e trattativa, il 41 bis, stabilizzato dopo pochi mesi dalla sua sospensione per i detenuti minori? Sarebbero Conso e Mancino i terminali della trattativa?”. E giù applausi.

Perchè questa voglia di dire addio, e per sempre, alla stagione del rigore antimafia, tacciato di “giustizialismo”, proprio mentre nell’aula bunker lo Stato tenta di processare se stesso? Si può parlare di un “laboratorio Palermo” dove l’accademia costruisce un alibi giuridico alla guerra (tutta politica) contro i pm di Palermo? E si può ipotizzare che Macaluso, che trascorre le vacanze con il capo dello Stato, sia il motore di questa operazione che passa per i media? E l’ambizioso Fiandacacosa c’entra? E l’insospettabile Di Lello?

Macaluso come D’Ambrosio e Mancino

Domande retoriche, ovviamente. Macaluso giura e spergiura che il suo garantismo è genuino e che le sue critiche alla procura di Palermo non hanno nulla a che vedere con Napolitano e con lo scontro presidenziale con i pm della trattativa. Anche se, sfogliando gli archivi, si scopre che il “ventriloquo” del Quirinale sostiene le stesse cose del trio Napolitano-Mancino-D’Ambrosio, proprio nei giorni delle telefonate top secret dell’ex ministro dell’Interno al centralino del Colle. Le date parlano chiaro: il 25 febbraio, il 5 marzo e il 7 marzo 2012, Mancino chiama D’Ambrosio. Si cerca il modo di “scippare” l’indagine ai pm di Palermo con la scusa di affidarne il coordinamento al Procuratore nazionale antimafia. D’Ambrosio: “Intervenire su Grasso”, con cui Mancino vorrebbe un incontro “in maniera riservatissima, che nessuno sappia niente”. D’Ambrosio: “Lo vedo domani”. L’8 marzo, mentre il Quirinale ipotizza questa exit strategy per Mancino, Macaluso sul defunto Riformista critica il “processo a Palermo che vede imputati il generale Mori e il colonnello De Donno” (ma gli imputati sono Mori e Obinu) e suggerisce: “Con l’aiuto della Procura nazionale antimafia occorre arrivare rapidamente a una conclusione”. Lo stesso giorno, dichiara al Corriere: “C’è una guerriglia tra poteri dello Stato, apparati investigativi e pezzi di magistratura. Guerriglia che continua e che fa delle vittime tra le quali non ho alcuna difficoltà a inserire Mori. La procura nazionale antimafia, guidata da un magistrato di valore come Grasso, dovrebbe prendere in mano questa situazione. Qui si chiamano in causa Scalfaro, Amato, Martelli, Mancino e ora anche Mannino, mentre a Palermo sono sotto processo Mori e De Donno (sono sempre Mori e Obinu)… Ci vorrebbe un punto di chiarezza e solo la procura nazionale può farlo”. Non pago di tanto zelo, il 15 marzo Macaluso si fa intervistare pure dalla rivistina ciellina Tempi: “Non è possibile che un paese viva chiedendosi per anni se c’è stata o no una trattativa, se Borsellino è morto per questo o no… Chiederei che si mettesse un punto. La procura nazionale antimafia, che ha tutti gli strumenti necessari per approfondire, perché non interviene per fare un po’ di chiarezza?… Mancino ha ribadito… che lui non sapeva nulla su una trattativa…”. Sono più o meno le stesse parole che D’Ambrosio, per conto di Napolitano, spendeva al telefono con Mancino, cercando di rassicurarlo. Solo un caso?

Ma questo è solo il prologo. Il successo del pamphlet negli ambienti della sinistra che conta ha gonfiato le vele di Fiandaca che, nella primavera di quest’anno, ci riprova. E pubblica, per i tipi di Laterza, un volume scritto a quattro mani con lo storico Salvatore Lupo, dal titolo: “La mafia non ha vinto”. È la conferma, stavolta arricchita da una prospettiva storica, della sua critica radicale al processo sulla trattativa Stato-mafia. Anche stavolta la presentazione a Palermo viene allestita a Palazzo Steri: a organizzarla è l’ex dirigente del Pci Vito Lo Monaco, presidente del centro Pio La Torre e parte civile nel processo sulla trattativa. Fiandaca ha ormai acquisito i toni del predicatore che non tollera dissensi. A Lo Monaco che, dopo aver auspicato un “dibattito sereno”, aveva osato: “Il libro ha grandi pregi, ma io credo che la discussione non possa partire soltanto dalla memoria dei pm, una quindicina di pagine in tutto, quando il processo è composto da decine di faldoni e migliaia di pagine”, il giurista replica furioso davanti a una sala attonita: “Lo Monaco, ma che obiezione è? Che senso ha? Non c’è bisogno di leggere migliaia di pagine di tanti faldoni, perchè nei faldoni ci sono tantissimi particolari e fatterelli che non assumono alcun rilievo ai fini della trattazione critica dei nodi di fondo posti dal processo sulla trattativa”. Poi si scaglia apertamente contro chi lo definisce un “giustificazionista”: “Siamo davanti a termini di tipo stalinista e fascista, perchè servono solo a screditare l’avversario”. Così predicando, il professore salta di presentazione in presentazione, vestendo ormai i panni dell’arguto polemista. Si avvicinano, intanto, le elezioni Europee.

Il crollo di un tabù

All’inizio di aprile, Macaluso torna a Palermo per festeggiare i suoi 90 anni e Massimo Accolla, ex giovane dell’area migliorista, raccoglie alla Gam (Galleria d’arte moderna) un plotone di vecchi amici ed esponenti della sinistra siciliana per rendere omaggio al grande vecchio della destra Pci. Anche stavolta il pubblico è d’eccezione: da Luigi Colajanni, europarlamentare all’inizio degli anni ’90, all’ex leader di Rc Francesco Forgione, presidente della fondazione Federico II, dal cuperliano Antonello Cracolici al deputato regionale Fabrizio Ferrandelli, dall’ex governatore della Regione Angelo Capodicasa al renziano Davide Faraone, dal sindacalista della Cgil Italo Tripi, fino al segretario dei democratici siciliani, Fausto Raciti. Non è una corrente, né un’area politica. Non è uno scampolo dell’ala migliorista del Pci. Non si può neppure definire una sorta di “cerchio magico” che fa capo a Napolitano, anche se al centro della corte brilla lo zio Nenè, il pupillo dell’inquilino del Colle. Che sia allora lo zoccolo duro del nuovo garantismo “rosso”? Anime e pezzi di quella sinistra che un tempo, nella Sicilia delle stragi e dei depistaggi, faceva dell’antimafia giudiziaria una bandiera di rigore e di giustizia. E oggi non nasconde più il fastidio per quello che Macaluso definisce con disprezzo il “populismo giudiziario”, l’ossessione delle manette. C’è la torta, lo spumante, ci sono le candeline. Baci, applausi, letture. Si celebra un compleanno, una stagione che fu, una generazione di ricordi; per una fetta della sinistra è il trionfo postumo di un’idea di riformismo garantista che finalmente ha l’avallo della massima carica istituzionale.

Ma c’è qualcosa di nuovo oggi nell’aria. Si fa vivo, alla festa, l’immancabile Fiandaca, l’ex maestro di Ingroia che ormai nei salotti di Palermo si atteggia ad anti-Ingroia. Di questo neo-garantismo di sinistra è un improvvisato ma utile cantore: a Roma c’è chi se n’è accorto da tempo. Pochi giorni dopo aver fatto gli auguri al “ventriloquo” di Napolitano, attorno alla torta confezionata a Palermo, Fiandaca viene promosso da Renzi in persona al ruolo di candidato del Pd alle Europee per la Sicilia. Ed è a questo punto che l’Unità saluta, con fervore, la fine di un tabù: “È molto più di una candidatura – scrive Claudia Fusani il 15 aprile – È la fine di un tabù lungo vent’anni. Un tabù che purtroppo ha pesato tantissimo nei rapporti tra politica e magistratura e in parte responsabile di certi innegabili ritardi nella riforma della giustizia. La candidatura del professor Fiandaca, uno dei massimi esperti in Italia di diritto penale, nella circoscrizione Isole alle Europee nelle liste del Pd ha un significato che va molto al di là del prestigio e del peso del nome. Fiandaca, infatti, ha avuto il coraggio, e il merito di criticare l’impostazione del processo sulla trattativa tra Stato e mafia in corso a Palermo’’.

Coraggioso Fiandaca. Che però rastrella solo 76 mila voti e alle elezioni del 24 e 25 maggio viene solennemente trombato, incarnando l’ennesimo flop isolano dei democratici che piazzano invece a Strasburgo Caterina Chinnici, magistrato e figlia di magistrato (suo padre, Rocco Chinnici, è il consigliere istruttore di Palermo che fu massacrato dalla mafia con un’autobomba nell’83), capace di tesaurizzare un bottino di 133 mila voti. C’è tra gli elettori Pd la voglia di premiare ancora una volta un simbolo dell’antimafia? È uno schiaffo agli anatemi anti-pm del giurista che sbeffeggia la trattativa Stato-mafia? Contestato dai suoi studenti, snobbato dai siciliani, il professor Fiandacatorna a fare l’anti-Ingroia nel chiuso della sua aula universitaria e sparisce di scena. Come da copione, il Pd glissa sulla figuraccia inflitta all’accademico polemista.

La riforma della giustizia

Ma oggi il fantasma “fiandachiano” di un sinistra iconoclasta che divora i propri eroi antimafia aleggia nell’aula bunker e incombe sul processo della Trattativa. Uscendo dalle pagine del libro del giurista, il garantismo di sinistra è diventato ormai un indirizzo istituzionale che va da Renzi (suo l’imprimatur alla candidatura di Fiandaca) al ministro della Giustizia Andrea Orlando (migliorista in età giovanile, ha sponsorizzato anche lui il giurista palermitano), che trova concorde il presidente del Senato Pietro Grasso (“Quelli lì, avrebbe detto a Mancino riferendosi ai pm di Palermo, “danno solo fastidio”) e il candidato alla Consulta Luciano Violante (“originale” per lui l’idea di citare il capo dello Stato come testimone al processo sulla trattativa).

Ora, dopo la conferma della convocazione di Napolitano davanti alla Corte d’assise di Palermo, la nuova linea di Fiandaca e Macaluso è pronta a farsi agenda politica. La guerra con le toghe è a 360 gradi. E Re Giorgio ha già annunciato l’imminente riforma della giustizia. La novità? Manco a dirlo, sta nella svolta di Renzi: il Pd non più come partito fiancheggiatore di giudici e Procure, ma “partito che laicamente affronta il tema della giustizia” declinandola sotto il segno del garantismo. “Noi siamo garantisti sul serio – promette il premier – alla magistratura chiediamo di rispettare ogni norma a tutela dell’imputato”.


Borsellino: incapaci di difenderlo

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Una nota riservata del comandante generale dell’Arma dei carabinieri, indirizzata al direttore del servizio segreto militare il 20 giugno 1992

Non c’è brivido, non c’è eccitazione, non c’è sfida: solo la paura raggelante

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Una riflessione da prendere in considerazione di Domenico Perrone, figlio di Roberto ex boss che gestiva il clan Polverino oggi pentito, sulle fiction tv e in generale sui rischi nel rappresentare la criminalità organizzata:

«Vi posso assicurare che, dal vivo, è tutta un’altra storia. Non c’è brivido, non c’è eccitazione, non c’è sfida: solo la paura raggelante di essere arrestati, traditi o ammazzati, e anche quando sei pieno pieno di soldi, non hai mai pace». Sul piccolo e grande schermo, questo contrappasso, invece, emerge raramente.
Non è mostrando l’inferno – è il suo ragionamento – che si combattono i peccati. «Perché c’è anche chi all’inferno vuole andare coscientemente». E allora che fare? «Mostrare che fine fanno i camorristi, in un cimitero o in un carcere sorvegliati a vista per il resto della loro vita».
Poi si ferma, e si corregge: «Anzi, nemmeno questo: le fiction le farei su chi a Scampia si alza al mattino e va a lavorare perché ci vuole molto più coraggio per essere onesti, in quei luoghi, che per premere il grilletto o vendere la droga».

La famiglia che “riconosce” il pentito

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Se vera è una gran bella notizia:

“Giuseppe Cimarosa e’ un giovane che cittadini onesti, associazioni e istituzioni non devono lasciare solo in questo percorso di riscatto intrapreso dopo la collaborazione del padre Lorenzo con la giustizia”. Lo ha detto il vescovo di Mazara del Vallo Domenico Mogavero, dopo averlo incontrato ed essersi intrattenuto a parlare con il trentunenne, cugino del boss di Castelvetrano Matteo Messina Denaro. Il padre Lorenzo, 54 anni, e’ stato arrestato nell’operazione “Eden” e oggi e’ un collaboratore di giustizia.
Giuseppe ha detto al vescovo che tutti i componenti del suo nucleo familiare hanno condiviso la scelta della di passare dalla parte dello Stato e di voltare definitivamente le spalle a Cosa nostra.
A determinare la scelta dell’imprenditore in direzione del pentimento e’ stato proprio il figlio dopo avergli parlato la prima volta in carcere. Al vescovo, Giuseppe Cimarosa (che ha preso una dura posizione pubblica contro il superlatitante Matteo Messina Denaro), regista di teatro equestre e fondatore della “Compagnia del centauro”, ha raccontato la sua solitudine, la sua paura e quella che vive la sua famiglia: il fratello Michele, la mamma Rosa Filardo e la nonna Rosa Santangelo (zia del superlatitante Matteo Messina Denaro) che vivono con lui senza tutela.

(link)

Quel “verminaio” a Barcellona Pozzo di Gotto

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Un gran pezzo di Luciano Mirone:

Da circa mezzo secolo Antonio Franco Cassata è consi­derato un potente magistrato amico dei mafiosi che prima di tre anni fa non era mai stato sfiorato da un provvedimento giudiziario. Un intoccabile.

Nel 2011 la Procura di Reggio Calabria lo ha messo sotto inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa, ma a tutt’oggi la notizia è coperta da una coltre di silenzio, cioè non sappiamo se il fasci­colo contro di lui è ancora aperto o se è stato chiuso, ed eventualmente perché.

Quel che è sicuro è che l’inchiesta è scat­tata: se è stata chiusa ce ne rallegria­mo, se è ancora in corso auguriamo all’ interessa­to di dimostrare la sua inno­cenza.

Intanto lo scorso anno Cassata ha ripor­tato una condanna in primo grado per dif­famazione (800 Euro di multa, più il risar­cimento alla famiglia) per essere stato ri­tenuto l’autore di un dossier anonimo pie­no di veleni contro Adolfo Parmaliana, il professore universitario che denunciava il verminaio di Barcellona Pozzo di Gotto e di Terme Vigliatore, suicidatosi per le ves­sazioni subite soprattutto “dal potere giu­diziario barcellonese e messinese che vor­rebbero mettermi alla gogna”, come lo stesso Parmaliana lasciò scritto.

La pensione anticipata
Malgrado questo, l’ex Procuratore ge­nerale della Corte d’Appello di Messina gode della rispettabilità che dalle nostre parti viene riservata solo ai potenti, sia nel capoluogo peloritano, dove ha svolto per tanti anni la sua carriera, sia a Barcellona Pozzo di Gotto (pochi chilometri da Mes­sina), dove risiede da sempre e da sempre esercita la sua influenza.

In realtà Cassata un potente lo è ancor oggi, malgrado la pensione anticipata alla quale – secondo le malelingue – sarebbe ricorso per evitare lo scandalo di un’inchiesta per mafia nell’esercizio delle sue funzioni, con un possibile coinvolgi­mento di un Consiglio superiore della ma­gistratura che – malgrado le interrogazio­ni parlamentari e le denunce giornalisti­che – nel 2008 lo ha promosso addirittura alla carica più alta della Procura messine­se.

Il libro scomodo di Parmaliana
Ma perché Cassata è così potente? Da dove deriva questa potenza? Qual è il suo ruolo in una città come Barcellona Pozzo di Gotto, dove l’alleanza tra mafia, mas­soneria e servizi segreti deviati è fortissi­mo?

Per capire il potere di cui dispone que­sto ex magistrato, basta recarsi alla “Cor­da fratres” – il circolo più in della città, esclusivo e “paramassonico” (secondo una definizione della Guardia di Finanza) che ha sistemato una caterva di rampolli dell’alta società barcellonese – di cui Cas­sata è da sempre animatore e leader, e par­lare di lui con i numerosi soci.

O magari aspettare l’uscita del prossimo libro di Melo Freni – giornalista barcello­nese dalla sfolgorante carriera in Rai, il quale, alla vigilia dell’uscita del volume di Alfio Caruso sulla morte di Adolfo Par­maliana, chiese all’autore di bloccare ad­dirittura la pubblicazione – per vedere “il giudice Cassata” al tavolo dei relatori as­sieme all’avvocato Franco Bertolone, suo intimo amico e noto legale dei boss più pericolosi di Barcellona.

Il viaggio con Bertolone e Chiofalo
Certo, di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia da quando (1974) il magistrato fece uno strano viaggio in Mercedes dalla Sicilia a Milano assieme allo stesso Berto­lone e al giovanissimo boss Pino Chiofa­lo, che tempo dopo (all’inizio degli anni Novanta) avrebbe scatenato una cruenta guerra di mafia contro il clan Gullotti, mentre nel ’99, ormai pentitosi, sarebbe stato contattato – secondo la Procura di Palermo – da Marcello Dell’Utri per con­vincerlo a screditare i tre collaboratori di giustizia Francesco Di Carlo, Giuseppe Guglielmini e Francesco Onorato, che ac­cusavano il fondatore di Forza Italia di es­sere vicino a Cosa nostra.

Certo, all’epoca di quel singolare viag­gio a Milano, Chiofalo muoveva i primi passi nell’ambito di Cosa nostra, ma è singolare che un magistrato preposto al persegui­mento dei mafiosi, faccia un tragitto così lungo con un mafioso e col suo avvocato.

Che un episodio del genere non sia frut­to della superficialità del personaggio sarà dimostrato ampiamente negli anni succes­sivi.

Il paradigma Barcellona
Ma per capire meglio la figura di Anto­nio Franco Cassata, bisogna delineare il contesto di Barcellona Pozzo di Gotto. Che non è un posto come tanti. C’è il traf­fico di droga sì, ci sono gli omicidi (qua­rantacinque fra il ‘90 e il ‘92) e le estor­sioni, e c’è la mega discarica di Mazzarà Sant’Andrea, sulla quale stanno lucrando in tanti, ma ciò non basta a spiegare il pa­radigma Barcellona a livello nazionale.

Barcellona è il luogo dove è stato co­struito il telecomando della strage di Ca­paci, recapitato da Gullotti a Giovanni Brusca in quel di San Giuseppe Jato per far saltare in aria Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta.

E’ la città dove hanno tra­scorso parte della loro latitanza due boss come Nitto Santapaola e Bernardo Pro­venzano, pro­tetti per decenni da quello Stato attual­mente sotto accusa a Palermo nel proces­so Trattativa.

È la città che, as­sieme a Catania, Paler­mo e Corleone, è stata l’avamposto avan­zato dell’eversione stragista fra la fine della Prima Repubbli­ca e l’inizio della Se­conda.

Ed è proprio sul “contesto” che Antonio Franco Cassata – ottimo conoscitore di uomini e cose di quel territorio – potrebbe chiarire molte cose. Cosa?

Il boss Gullotti
Primo. Giuseppe Gullotti è il boss indi­scusso che secondo la sentenza della Cas­sazione è il mandante di tanti delitti, com­preso quello del giornalista Beppe Al­fano, ucciso perché “reo” di avere scoper­to il nascondiglio segreto di Barcellona dove Santapaola si nascondeva all’inizio degli anni Novanta (circostanza confer­mata dal­la recente testimonianza del pen­tito Carmelo D’Amico). Perché Gullotti è rimasto iscritto alla “Corda fratres” fino all’anno dell’omicidio Alfano (1993)? Cassata dice che fino a quel momento il boss era un insospettabile incensurato che veniva pure preso in giro all’interno del sodalizio.Ma è vero che negli uffici giu­diziari circolava da tempo un’informativa in cui si diceva che “l’avvocaticchio” (come veniva soprannominato) era diven­tato il referente di Santapaola a Barcello­na? Perché tempo dopo – mentre Gullotti è latitante – Cassata sente l’esigenza di mettersi a confabulare in piazza con la moglie del boss (figlia del vecchio capo­mafia Ciccio Rugolo e sorella del nuovo reggente Salvatore Rugolo), che è seguita dai Carabinieri, i quali stilano un rapporto sull’episodio? Perché Cassata al Csm di­chiara di essersi fermato per accarezzare il bambino nella carrozzella, quando i Cara­binieri, in quel rapporto, scrivono che non c’è alcun bambino né tantomeno una car­rozzella? Perché Cassata fa pressione per evitare che quel rapporto vada avanti? Ci sta che il Procuratore generale della Corte d’Appello si apparti con la moglie del boss, figlia del boss e sorella del boss?

I contratti ai mafiosi
Secondo. Da una interrogazione del se­natore Pd Beppe Lumia risulta come il fi­glio dell’ex procuratore generale, l’avvo­cato Nello Cassata, negli anni in cui è sta­to presidente dell’Ipab (Istituto di pubbli­ca assi­stenza e beneficienza) di Terme Vi­gliatore-Barcellona (1999-2001) abbia prorogato dei contratti di locazione a im­portanti mafiosi e a persone che con San­tapaola e Gullotti ci hanno avuto a che fare. Per esempio Aurelio Salvo, “al tem­po pregiudicato – scrive Lumia nell’inter­rogazione – per favoreggiamento aggrava­to nei confronti di Giuseppe Gullotti e di Nitto Santapaola”.

La “latitanza” di Santapaola
Costui infatti è il proprietario sia dell’appartamento dove ha trovato rifugio Gullotti quando si è dato alla macchia per l’omicidio Alfano, sia della villa di Terme Vigliatore dove ha trascorso un pezzo del­la sua latitanza proprio Santapaola

A un certo punto il Ros dei Carabinieri – grazie alle intercettazioni ambientali – scopre che don Nitto trascorre la sua latitanza nel piccolo centro tirrenico, e individua la vil­la di Aurelio Salvo come luogo “sensibile” per la cattura di uno dei boss più pericolosi del mondo. Basta organiz­zare un blitz per prendere Santapaola. Niente di tutto questo.

Mentre il capoma­fia se ne sta tranquillamente a casa, il ca­pitano “Ultimo” – forse depistato da qual­cuno – inizia un rocambolesco insegui­mento con un fuoristrada a bordo del qua­le non c’è Santapaola. Il boss catanese viene messo sull’avviso e lascia il covo. Ma invece di fuggire lontano, torna tran­quillamente a Barcellona (c’era stato poco prima) dove trascorrerà un altro pezzo della sua latitanza senza essere disturbato.

L’ex procuratore Cassata sapeva dei rap­porti fra Aurelio Salvo, Gullotti e Santa­paola? Sapeva dei rapporti fra suo figlio e Aurelio Salvo?

Lui afferma che Nello ha ereditato que­sta situazione dalla preceden­te gestione Ipab. Ma cosa ha fatto Nello Cassata per porre fine a questi rapporti? Ha mai preso le distanze da determinati personaggi? E lui, Antonio Franco Cassata, che posizio­ne ha assunto nei confronti del figlio? Non avrebbe dovuto chiedere l’immediato trasferimento per incompatibilità ambien­tale? Ma questa è solo la punta dell’ice­berg. Nei due anni di gestione dell’Ipab, Cassata junior ha continuato ad affittare gli immobili dell’Istituto al fior fiore della criminalità barcellonese e ad imprenditori incensurati molto vicini a Cosa nostra.

L’elenco è lungo. Un nome fra tutti: Do­menico Tramontana, boss di primissi­mo piano (secondo i Carabinieri), crivel­lato di colpi sulla sua auto sulla quale i Carabi­nieri hanno trovato una cinquantina di vo­lantini elettorali dell’ex sindaco di Terme Vigliatore, Bartolo Cipriano, per­sonaggio transitato con disinvoltura dal centrode­stra al centrosinistra, “molto vici­no – se­condo Biagio Parmaliana, fratello di Adolfo – allo stesso Nello Cassata, di­ventato consulente legale del Comune di Ter­me Vigliatore”.

Una truffa da 35 milioni
Terzo. Risulta al dott. Antonio Franco Cassata che, mentre occupava la poltrona più prestigiosa della Procura generale, il figlio sia stato uno degli organizzatori di una maxi truffa alle assicurazioni (ingenti i capitali ricavati: solo nel 2009, 35 milio­ni di Euro, al punto da spingere le compa­gnie a “scappare” da Barcellona) in cui, oltre ad essere coinvolti diversi professio­nisti (soprattutto medici e avvocati), c’è implicata la criminalità organizzata?

Niente ricorso contro i boss
Quarto. È vero che l’ex procuratore ge­nerale – come dice l’avvocato Fabio Repi­ci – non ha presentato ricorso in Cassazio­ne contro la sentenza d’Appello del pro­cesso “Mare nostrum droga”, in cui tutti gli imputati barcellonesi, dopo pesanti condanne in primo grado, sono stati assol­ti in secondo?

È vero che non lo ha fatto – per citare sempre Repici – “per una gretta interpre­tazione giuridica delle fonti di prova”?

Fra gli assolti c’era Ugo Manca
Quinto. Fra gli imputati assolti al pro­cesso “Mare nostrum droga” figura tale Ugo Manca, personaggio molto vicino alla mafia di Barcellona e condannato in primo grado a quasi dieci anni per traffico di droga. Ugo Manca è stato coinvolto (la sua posizione è stata archiviata lo scorso anno) nella morte del cugino Attilio Man­ca, urologo allora in servizio all’ospedale di Viterbo.

Secondo diversi indizi – fra cui le re­centi dichiarazioni del pentito di camorra Giuseppe Setola – Attilio Manca sarebbe stato ucciso perché avrebbe sco­perto la vera identità del boss latitante Bernardo Provenzano (allora nascosto sot­to il falso nome di Gaspare Troia), mentre lo avreb­be curato dal tumore alla prostata da cui era affetto.

È vero che esiste una intima amicizia fra l’ex procuratore e Ugo Manca? Fino a che punto?

Cattafi e la “Corda frates”
Sesto. A proposito di amicizie. È vero che il magistrato è intimo anche del boss Rosario Pio Cattafi (oggi al 416 bis per associazione mafiosa), definito “social­mente pericoloso” dal prefetto di Messina, al punto che è stato costretto all’obbligo di dimora per cinque anni a Barcellona?

Vicino ai servizi segreti deviati, ex ordi­novista assieme al boss di Mistretta Pietro Rampulla (artificiere della strage di Capa­ci), residente a Milano per molti anni, l’avvocato Rosario Pio Cattafi è ritenuto il riciclatore del denaro sporco del clan San­tapaola e – secondo recenti inchieste – uno dei mandanti dell’assassinio del giu­dice torinese Bruno Caccia, che negli anni Settanta indagava sui proventi sporchi provenienti dal casinò di St. Vincent.

Il boss restò nella “Corda frates”
Tor­nato a Barcellona dopo il coinvolgi­mento nell’affaire dell’autoparco milanese di via Salomone (in cui era implicato il Psi di Bettino Craxi), Cattafi fu ritenuto – assie­me a Silvio Berlusconi e a Marcello Dell’Utri – uno dei mandanti esterni della strage di Capaci.

La sua posizione, assie­me a quella dell’ex presidente del Consi­glio e del fon­datore di Forza Italia, venne successiva­mente archiviata.

È vero che malgrado un curriculum di queste dimen­sioni, il boss ha continuato a far parte del­la “Corda fratres”, senza che il dott. Cas­sata abbia sentito il dovere di chiederne l’espulsione?

L’“informativa Tsunami”
Settimo. È vero che l’ex procuratore Cassata, all’inizio del Duemila, cercò di bloccare un rapporto esplosivo dei Cara­binieri (“l’Informativa Tsunami”) che si soffermava, tra l’altro, sull’amicizia fra l’ex Pm di Barcellona Olindo Canali (tra­sferito dal Csm al Tribunale di Milano per “incompatibilità ambientale”) e Salvatore Rugolo, all’epoca ritenuto il nuovo reg­gente della cosca barcellonese?

Nel rap­porto si parla di almeno due tal­pe “molto vicine a Canali” che dalla Pro­cura barcel­lonese avrebbe passato le in­formazioni al boss. In quelle duecento pa­gine si parla anche di un intervento del Procuratore Cassata presso il sostituto procuratore An­drea De Feis, titolare dell’indagine su Ter­me Vigliatore, per bloccare il rapporto dell’Arma.

“Il grande protettore di Canali”
Ottavo. È vero – come dicono Sonia Al­fano e l’avvocato Fabio Repici – che “An­tonio Franco Cassata è stato il grande pro­tettore di Olindo Canali”? Se è vero, sa­rebbe interessante sapere se l’ex procura­tore generale ha saputo – magari dallo stesso collega – che il giornalista Beppe Alfano – poco prima di essere ucciso – si sarebbe recato da Canali per confidargli il segreto della latitanza di Santapaola.

Il magistrato monzese gli avrebbe rispo­sto: “Non me ne posso occupare” e alla fine, secondo Sonia Alfano, gli avrebbe detto: “Scrivi tutto quello che sai, chiudi la lette­ra in una busta gialla e spedisci il plico alla Dia di Catania. Avviserò un su­per po­liziotto di prenderlo personalmente”.

“Scrivi tutto quello che sai”
“Mio padre – prosegue l’ex europarla­mentare, che dice di essere stata presente al colloquio – eseguì alle lettera le istru­zioni di Canali, e poco tempo dopo Beppe Alfano fu ucciso”.

(Tratto da: isiciliani.it)

Una donna fa tremare la mafia foggiana: i nomi

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1418359_10202379466998455_870545816_n-e1415109744205È, di fatto, il primo pentimento nella storia della mafia foggiana. Sabrina Campaniello, 33 anni, ex moglie di Emiliano Francavilla, uno dei capi della “Società”, è testimone di giustizia da qualche mese. Questo emerge dopo che la Dda di Bari ha depositato il verbale delle dichiarazioni rese dalla donna. Al centro della questione c’è sempre l’operazione “Corona” del luglio 2013 nella quale sono stati arrestati 24 esponenti della malavita locale. La Campaniello ha cantato, si può dire, svelando parte dell’organigramma della “Società”. I capi, i soldati, gli uomini trasversali. Uomini e vicende narrati più volte sulle pagine online de l’Immediato. Come quando scrivemmo delle estorsioni a Lello Zammarano (leggi) e Matteo La Torre (leggi), quest’ultimo definito dagli inquirenti in “costante contatto con i malavitosi”. La Campaniello non avrebbe svelato i nomi degli imprenditori vittima di estorsioni. Ma c’è un’ordinanza monstre di quasi 700 pagine a raccontare storie molto dettagliate su come la mafia ha tessuto le sue trame di potere nel capoluogo dauno. Dai costruttori ai piccoli esercenti passando per la grande distribuzione, in molti si sono piegati al volere dei boss.

Organigramma della Società

Nello schema della “Società foggiana” tracciato dagli inquirenti in occasione dell’Operazione Corona, c’è un quadro dettagliato su capi e organizzatori dei clan. In cima ci sono Roberto Sinesi, Raffaele Tolonese, Antonello Francavilla, Emiliano Francavilla, unitamente a Rocco Moretti, Antonio Vincenzo Pellegrino, Federico Trisciuoglio e Michele Mansueto (deceduto). Tutti indagati in “Corona” perché dirigevano e coordinavano, anche quali componenti di vertice delle batterie di riferimento (Sinesi/Francavilla, Moretti/Pellegrino e Trisciuoglio/Mansueto/Tolonese), le attività delittuose programmate dal sodalizio. L’“Operazione Corona” ci ha regalato uno spaccato di vita, morte, sangue e denaro della Società. Caposaldo del business: il racket delle estorsioni. Il fenomeno ha colpito, nel corso degli anni, uomini più o meno noti del panorama imprenditoriale di Foggia. Soggetti che, sotto minaccia, hanno riempito le casse della Società e rifornito i garage dei boss di nuove e fiammanti automobili. Nello schema ricostruito dal Tribunale di Bari, emergono organizzatori, batterie ed elementi trasversali. In “Corona” si parla anche dei rapporti con la mafia garganica e del ruolo della Società nel proteggere la latitanza di Franco Li Bergolis (leggi). Alcuni dei nomi che leggerete, sono comparsi nel capitolo riguardante Matteo La Torre.

Organizzatori:Savino Ariostini, Francesco Sinesi e Pasquale Moretti gestivano (Sinesi per la batteria omonima, Ariostini e Moretti per il clan Moretti/Pellegrino) le attività delittuose come estorsioni, banconote false, rapine e contraffazione.

BATTERIA Trisciuoglio/Mansueto/ToloneseSalvatore Buono (ricettazione e riciclaggio auto e commercio droga); Agostino Corvino (come Buono); Luigi De Stefano (estorsioni); Felice Direse (partecipe a sodalizio e mantenuto economicamente dallo stesso); Giovanni Pepe (estorsioni, deceduto); Salvatore Prencipe (come Direse); Giovanni Russo(estorsioni); Antonio Sabetta (armi); Rocco Soldo (commercio droga, estorsioni, ricettazione e riciclaggio auto, detenzione armi); Fabio Trisciuoglio (estorsioni); Giuseppe Trisciuoglio (estorsioni, gestione attività economiche e gestione cooperative sociali).

BATTERIA Sinesi/Francavilla:Nunzio Aprile (estorsioni); Carlo Borreca (estorsioni e armi); Pompeo Brattoli(estorsioni); Roberto Di Sibbio (estorsioni e omicidi); Alessandro Lanza (estorsioni e rapine); Mario Lanza (rapine); Antonio Pegna (gestione attività economiche e gioco d’azzardo); Ciro Stanchi (estorsioni e rapine).

BATTERIA Moretti/Pellegrino: Mimmo Falco (rapine e armi); Ernesto Gatta (estorsioni); Pietro Stramacchio (armi, rapine, estorsioni, contraffazione banconote false).

Elementi trasversali: Cesare Antoniello (per le infiltrazioni nel tessuto politico, economico e imprenditoriale); Luigi Carella (rapine e detenzione armi); Michele Carella (armi, estorsioni e ricettazione); Massimiliano Cassitti (estorsioni e banconote false); Mario Clemente (armi e rapine); Daniele De Cotiis (ricettazione e riciclaggio auto); Antonio De Sandi(rapine); Michele Ragno (ricettazione e riciclaggio auto); Giosuè Rizzi (deceduto, partecipe stabilmente al sodalizio dal quale percepiva mantenimento economico); Antonio Russo (ricettazione e riciclaggio auto); Michele Testa (ricettazione e riciclaggio auto); Giuseppe Zucchini (per le infiltrazioni nel tessuto politico, economico e imprenditoriale).

(fonte)

Le colpe a Ostia: non solo mafia.

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Un importante articolo di Mauro Cifelli:

Un “sistema corruttivo” attuato con “metodo mafioso” finalizzato a pilotare la gestione dei pubblici appalti e la concessione di alcuni stabilimenti balneari di Ostia. A gestirlo esponenti di spicco del Clan Spada e l’ex direttore dell’Ufficio Tecnico dell’allora Municipio XIII (ora X) lidense l’ingegnere Aldo Papalini, con la connivenza di imprenditori del territorio. Questa la strategia criminale smascherata al termine di una complessa operazione cominciata dall’affidamento della gestione dello stabilimento ‘Orsa Maggiore’ che nell’estate del 2012 venne revocata al Cral dell’Ente Poste che lo gestiva, con l’asssegnazione alla società ‘Bluedream srl’ costituita ad hoc tre giorni prima della revoca della concessione.

BLITZ ALL’ALBA - Nei confronti dei promotori di questo ‘sistema’ è scattato alle prime ore di stamattina una operazione condotta in sinergia dalla Polizia di Stato, dall’Arma dei Carabinieri e dalla Guardia Costiera, coordinata dalla locale Direzione Distrettuale Antimafia, nel corso della quale sono stati eseguiti nove provvedimenti restrittivi a carico di altrettanti indagati, tra esponenti della criminalità lidense, imprenditori e pubblici ufficiali che avevano messo in atto un ben oliato impianto corruttivo.

I REATI CONTESTATI - Le nove persone indagate sono ritenute a vario titolo resposanbili dei reati di “abuso di ufficio”, “turbata libertà degli incanti”, “falsità ideologica”, “concussione”, “corruzione” e “reati finanziari” con l’aggravante del “metodo mafioso” in quanto finalizzati ad agevolare il Clan Spada, federato ai Fasciani, ed egemone nel territorio di Ostia.

GLI INDAGATI - Nove gli indagati, tre destinatari della misura della custodia cautelare in carcere (Aldo Papalini, Armando Spada e Cosimo Appeso) e sei alla misura degli arresti domiciliari (Giovanni RecchiaAntonio AmoreDamiano Falcioni, Ferdinando CollocaMatilde Magni e Angelo Salzano). In particolare le investigazioni della DDA (Direzione Distrettuale Antimafia) di Roma hanno avuto origine a partire dal 2012 e si sono focalizzate sulla figura dell’ingegner Aldo Papalini, all’epoca direttore dell’Ufficio Tecnico del Municipio Mare, intorno alla quale hanno ruotato tutte le ipotesi delittuose oggetto dell’indagine portata a conclusione quest’oggi.

PROVVEDIMENTI EMESSI - Oltre alle nove ordinanze di custodia cautelare sono state effettuate 26 perquisizioni ad Ostia, FiumicinoCivitavecchia e Gaeta. I provvedimenti sono stati attuati su richiesta della DDA ed emessi dal Gip di Roma Alessandra Boffi. Come ha spiegato il procuratore aggiunto Michele Prestipino nel corso di una conferenza stampa di presentazione dei risultati delle investigazioni: “Al centro dell’inchiesta c’è l’illecito affidamento, proprio con metodi mafiosi, dello stabilimento balneare ‘Orsa Maggiore’, già in carico al Cral dell’Ente Poste, a una società denominata ‘Bludream Srl’ finita sotto il controllo”, secondo gli investigatori “di esponenti della famiglia Spada”.

STABILIMENTO ORSA MAGGIORE - Nello specifico, è stato monitorato dagli organi investigativi l’affidamento della gestione del Lido Orsa Maggiore, storico stabilimento balneare di Ostia, assegnato alla società “Bluedream srl” con “l’interessamento diretto del Clan Spada.

FALSE FATTURAZIONI - Secondo quanto constatato dalla Procura di Roma il metodo utilizzato da alcuni degli indagati raggiunti questa mattina da un ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip di Roma, per comprare i favori dell’ex dirigente dell’Ufficio Tecnico di Ostia, Aldo Papalini, avveniva mediante “un sistema di false fatturazioni verso una società con sede a Latina“. “Le mazzette”, con importi variabili dai 40mila ai 60mila euro, finivano sul conto corrente della società legata a Papalini e poi “ritirate” personalmente da un uomo di fiducia dello stesso dirigente, che non risulta indagato nell’inchiesta.

REVOCA DELL’APPALTO - In sintesi, violando le più elementari norme che conformano il procedimento amministrativo, in assenza di alcuna effettiva istruttoria e contradditorio, Aldo Papalini “aveva dapprima disposto la revoca e la decadenza delal concessione al Cral, per poi riaffidarla immediatamente ad un altro operatore attraverso una procedura ad asserita evidenza pubblica (consumatasi in un arco temporale di soli 5 giorni) alla società “Bluedream”, come detto, costituta ad hoc pochi giorni prima.

ASSEGNAZIONE A BLUEDREAM - Sempre secondo quanto appurato dalle indagini “tale assegnazione è stata condotta da Aldo Papalini in concorso con Damiano Facioni, Ferdinando Colloca (fratello dell’allora consigliere Salvatore Colloca) e Matilde Magni, questi ultimi nelle qualità di soci formali, nonché da Cosimo Appeso, Luogotenente della Marina Militare e Armando Spada, “soci di fatto” della “Bluedream” costituita appositamente per lo scopo”.

CONTESTO CRIMINALE - Una vicenda emblematica, poiché si inserisce in un più ampio contesto che vede il territorio lidense oggetto di appettiti criminali da parte delle “locali consorterie mafiose dedite specialmente all’accaparramento di aree demaniali e stabilimenti balneari ivi esistenti, con contestuale corruzione di pubblici ufficiali a favore di alcuni imprenditori che potevano giovarsi del nome degli Spada”.

OPERAZIONE NUOVA ALBA - Il clan Spada erà già finito sulle cronache locali nel maggio dello scorso anno quando Carmine Spada ed Emiliano Belletti furono arrestati in seguito ad un tentativo di estorsione di denaro nei confronti di un commerciante ripreso in un video che inchiodò i due esponenti del Clan lidense. “Il Clan Spada il cui prestigio criminale ha segnato una progressiva crescita proprio in forza dell’alleanza con il Clan Fasciani, capeggiato dal capostipite Carmine, tratto in arresto nel luglio del 2013 durante l’Operazione Nuova Alba“.

RISULTANZE INVESTIGATIVE - Le risultanza investigative della operaizone dell’estate del 2013 sono poi state recepite dal Gup che ha riconosciuto, con sentenza del 13 giugno 2014, “l’associazione a delinquere di stampo mafioso a carico dell’affiliato, che aveva optato per il rito abbreviato, mentre il procedimento principale col rito ordinario è in via di conclusione avendo l’Ufficio di Procura già rassegnato ler proprie conclusioni con la requisitoria finale”.

RIMOZIONE INCARICO PAPALINI - Proprio l‘esecuzione delle 51 ordinanze di custodia cautelare nei confronti di capi ed affiliati ai “sodalizi mafiosi Fasciani e Triassi, tra loro contrapposti, ed il conseguente clamore mediatico, hanno determinato l’Ente Roma Capitale all’adozione di una misura di autotutela amministrativa di rimozione dell’incarico ad Aldo Papalini, del quale emergevano gli stretti legami con gli Spada”.

AIUTO E CONTRIBUTO - Sempre secondo quanto appurato nel corso della complessa indagine “Prima di allora l’interessato “aiuto e contributo” del Papalini ha permesso ad alcuni imprenditori, tra gli altri Recchia, Amore e Salzano, di gestire i più lucrosi appalti pubblici sul territorio del litorale, per lavori di ogni tipo, grazie al ricorso di procedure negoziate ristrette senza pubblicazione del bando di gara in palese violazione della normativa ed in assenza di presupposti di legge”.

ORSA MAGGIORE ACQUISITA CON L’INTIMIDAZIONE - Un ‘sistema’ messo in atto anche nel caso dello stabilimento Orsa Maggiore, con l’acquisizione dello stesso attuata a “mezzo intimidazione e con la compiacenza di pubblici funzionari infedeli”, che trova “valenza paradigmatica dell’attività criminosa degli Spada, coerente con l’attività parallela dei Fasciani”.

‘Ndrangheta: il fango a comando

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Tavolo dei testimoni. Siede Federico Corniglia, ex riciclatore della ‘ndrangheta, ascoltatissimo dalla Procura di Palermo che fino al 2006, anche grazie alle sue indicazioni, ha dato la caccia a Bernardo Provenzano. Ieri ha parlato in un processo a Milano che vede imputato un poliziotto per favoreggiamento e rivelazione di atti coperti da segreto. Si chiama Carmine Gallo ed è considerato l’investigatore italiano più esperto in fatto di lotta alla ‘ndrangheta. Sempre ieri Gallo ha rinunciato alla prescrizione prevista per il 2016. Corniglia è testimone dell’accusa. Racconta del suo interrogatorio in Svizzera, 8 gennaio 2010. “In una pausa il maresciallo del Ros di Verona Mario Arabia e l’ispettore della polizia elvetica Gianluca Calà mi chiesero di fare dichiarazioni accusatorie contro Carmine Gallo e Alberto Nobili”. Pausa. Alberto Nobili, attuale procuratore aggiunto, è stato uno dei magistrati di punta dell’antimafia milanese e con Carmine Gallo, nel 1993, ha gestito le dichiarazioni del superpentito Saverio Morabito. Verbali che hanno dato fuoco alle polveri del maxi-blitz nord-sud su vent’anni di affari delle cosche al nord. Corniglia prosegue: “Mi dissero” che su Gallo e Nobili “avevano indicazioni di rapporti” dei due “con uomini dei clan a Milano”. Rapporti che, però, non emergono dalle carte dell’inchiesta. “Da quel momento in poi – prosegue Corniglia durante il controesame dell’avvocato Antonella Augimeri – ho fatto dichiarazioni accusatorie contro Gallo. In cambio promisero di spostarmi dal carcere svizzero dove stavo in isolamento all’infermeria del carcere di Padova”. La sua deposizione è considerata uno dei cardini dell’accusa che imputa al poliziotto di aver “spifferato” a Corniglia il nome di un’indagine del Ros di Padova e della procura di Venezia che nel 2008 ha portato in carcere una batteria di spacciatori composta da ex estremisti di destra e da reduci della mala del Brenta. In quell’inchiesta, oltre a Corniglia, viene indagato Gallo per droga. Accusa caduta in Cassazione e posizione stralciata a Milano dove il procuratore aggiunto Ilda Boccassini per lui ottiene il giudizio immediato. Dopo le “ritrattazioni” di ieri, i pm Paolo Storari e Francesca Celle hanno ipotizzato l’accusa di calunnia per Federico Corniglia.

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L’amico di Marcello e la mafia: Natale Sartori

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Associazione a delinquere, false dichiarazioni di redditi per 31 milioni ed emissione di false fatture per 92 milioni. Con queste accuse è finito in carcere a Milano Natale Sartori, messinese, classe ‘58, legato alle figlie di Vittorio Mangano, nonché indagato (e poi prosciolto) per aver favorito la latitanza di Enrico Di Grusa, il genero dell’ex fattore di Arcore. Sartori, ha dimostrato un’indagine della Dia, fino ad almeno gli anni Novanta era in contatto diretto con Marcello Dell’Utri, l’uomo che portò Mangano ad Arcore, oggi condannato definitivo per concorso esterno in associazione mafiosa.

Il campo che unisce Sartori, le figlie dello “stalliere” e Di Grusa è quello delle cooperative di facchinaggio, pulizie, servizi. Nello scorso agosto Cinzia Mangano, una delle tre figlie di Vittorio, è stata condannata in primo grado a Milano a sei anni e quattro mesi per associazione a delinquere. L’inchiesta era partita da una rete di cooperative che, secondo l’accusa, riciclavano denaro sporco anche per aiutare i familiari degli arrestati e i latitanti. Una sorta di succursale della mafia siciliana a Milano, attiva già negli anni ’90. Sartori, inoltre, era stato fotografato nel 2010 dai carabinieri del Ros insieme a Paolo Martino, manager della ‘ndrangheta condannato in secondo grado.

Oltre a Sartori, ora detenuto a San Vittore, altre cinque persone sono finite ai domiciliari nell’indagine, coordinata dal colonnello Gabriele Procucci del nucleo di polizia valutaria della Guardia di finanza e dal pm Carlo Nocerino, che vede 21 indagati. Tra questi un funzionario di Bpm accusato di riciclaggio. L’inchiesta nasce da una segnalazione di Bankitalia su operazioni sospette. Segnalazione a sua volta ricevuta da vari istituti, tra cui Bpm, a proposito del suo dipendente.

Secondo gli investigatori, ci sarebbe stata “un’unica cabina di regia” dietro la frode a gestione ‘familiare’ da 31 milioni di euro che ha portato in carcere Sartori, titolare dell’Alma Group e amministratore di fatto di otto cooperative della “galassia” del gruppo. In cella anche Bruno Righetti, suo uomo di fiducia, mentre sono stati posti ai domiciliari la moglie separata, Provvidenza Giargiana, le loro due figlie Tiziana e Cristina Sartori, e i professionisti Roberto Notargiacomo e Andrea Gorgoglione. Il Consorzio Alma Group, specializzato in pulizie, trasporto merciper conto terzi e movimentazione di magazzino, si è aggiudicato decine di appalti privati, compresi quelli di alcune grandi catene di supermercati come Esselunga, Conad e Il Tirreno. Il gruppo operava ‘a due facce’, scrive il gip Vincenzo Tutinelli: verso i grandi committenti con normali logiche commerciali, ma”‘verso il basso il modus operandi trascende/sconfina nell’illegalità”, con le coop che di fatto diventavano “società a scopo di lucro”.

Secondo l’accusa, ad Alma Group facevano capo otto cooperative fittizie, le quali avrebbero emesso fatture per operazioni inesistenti per 92 milioni, Iva compresa ( e da loro mai versata), a favore di Alma Group consentendo a quest’ultimo di detrarre illegittimamente l’imposta. Si tratta di un sistema fraudolento di cui il “dominus”, si ipotizza, era Sartori.

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I numeri sui beni confiscati

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Un articolo di Danilo Rota:

Alla direzione dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata si sono finora succeduti quattro prefetti: Alberto Di Pace (da febbraio ad aprile 2010), Mario Morcone (da aprile 2010 a giugno 2011), Giuseppe Caruso (da giugno 2011 a giugno 2014) e Umberto Postiglione (da giugno 2014).
Eppure nessuno di loro ha redatto nei tempi stabiliti il resoconto sull’attività svolta dall’Agenzia.
Infatti, nonostante sia l’art. 3, c. 1 del decreto-legge n. 4/2010 (poi convertito dalla legge n. 50/2010), sia l’art. 112, c. 1 del decreto legislativo n. 159/2011 (Codice antimafia) impongano al Direttore di presentare la relazione ogni 6 mesi, essa ha sempre avuto cadenza annuale.
L’ultima disponibile è stata resa nota all’inizio del 2013 e si riferisce all’anno 2012 (quella per il 2013 avrebbe dovuto essere pubblicata tra il gennaio e il marzo scorsi, ma ad oggi resta un mistero).
Leggendola si scopre che al 31 dicembre 2012 i beni confiscati alle mafie in via definitiva sono 12.946: 11.238 immobili e 1.708 aziende.
Degli 11.238 immobili:
 
- il 52,14% (5.859 immobili) è stato destinato e consegnato a comuni (5.010), forze dell’ordine, vigili del fuoco e capitanerie di porto (646), ministeri (104), province e regioni (89), altri enti (10);
- il 35,55% (3.995 immobili) è in gestione: per 1.668 immobili lo stato di manutenzione è ignoto, per 873 è valutato “soddisfacente”, per 686 “mediocre”, per 664 “buono” e per 104 “inagibile”.
Inoltre:
2.819 sono gravati da una o più criticità (come ipoteche e procedure giudiziarie in corso);
1.556 hanno gravami ipotecari certi. Su 1.065 pesa un’ipoteca volontaria, su 343 un’ipoteca giudiziale, su 76 un pignoramento, su 59 un’ipoteca legale, su 13 altro;
- l’8,07% (907 immobili) è stato destinato, ma non consegnato: 377 immobili sono gravati da ipoteca;
- il 4,24% (477 immobili) è uscito dalla gestione. I motivi principali sono la revoca della confisca e le esecuzioni immobiliari.
Delle 1.708 aziende:
- il 70,90% (1.211 aziende) è in gestione (ma tante aziende non hanno dipendenti e stanno per uscire dalla gestione): per 393 imprese non è ancora stata trovata una destinazione, mentre le destinazioni disposte alle rimanenti 818 sono le seguenti:
342 liquidazione;
237 gestione sospesa;
189 chiesta la cancellazione dal registro delle imprese e/o dall’Anagrafe Tributaria;
44 vendita;
6 affitto;
- il 29,10% (497 aziende) è uscito dalla gestione perchè la confisca è stata revocata (14) e le aziende sono state:
cancellate dal registro delle imprese e dal repertorio delle notizie economiche e amministrative (285);
liquidate (153);
vendute (45).
Ma quanto tempo impiega lo Stato italiano per destinare i beni confiscati ai mafiosi?
Per saperlo, è necessario leggere la relazione annuale 2009 del Commissario straordinario del Governo per la gestione e la destinazione dei beni confiscati ad organizzazioni criminali (Antonio Maruccia), pubblicata nel novembre 2009 (il commissario ha cessato le proprie attività con l’istituzione dell’Agenzia nazionale nel 2010).
Alla data del 30 giugno 2009:
- i tempi impiegati dallo Stato per destinare gli immobili confiscati alle mafie (totale immobili destinati: 5.407) sono i seguenti:
entro 4 mesi dalla confisca definitiva (limite previsto dalla normativa vigente): lo 0,06% degli immobili (3);
dopo 4-12 mesi: il 2,44% degli immobili (132);
dopo 1-2 anni: il 15,44% degli immobili (835);
dopo 2-5 anni: il 37,43% degli immobili (2.024);
dopo 5-10 anni: il 32% degli immobili (1.730);
dopo oltre 10 anni: il 12,63% degli immobili (683).
Tempi medi per la destinazione: 5 anni e mezzo (5,55);
- i tempi da cui è attesa la destinazione degli immobili confiscati alle mafie (totale immobili ancora da destinare: 3.213) sono i seguenti:
0-4 mesi: lo 0,62% degli immobili (20);
4-12 mesi: il 3,52% degli immobili (113);
1-2 anni: il 18,30% degli immobili (588);
2-5 anni: il 24,31% degli immobili (781);
5-10 anni: il 40,68% degli immobili (1.307);
oltre 10 anni: il 12,57% degli immobili (404).
Tempi medi di attesa: poco più di 6 anni (6,22).
- i tempi impiegati dallo Stato per destinare le aziende dopo la confisca definitiva (totale aziende confiscate in via definitiva alle mafie e poi destinate: 642) sono i seguenti:
entro 4 mesi: l’1,75% delle aziende (17);
dopo 4-12 mesi: il 5,57% delle aziende (54);
dopo 1-2 anni: il 15,69% delle aziende (152);
dopo 2-5 anni: il 20,64% delle aziende (200);
dopo 5-10 anni: il 15,38% delle aziende (149);
dopo oltre 10 anni: il 7,22% delle aziende (70).
Tempi medi per giungere alla destinazione delle aziende destinate dopo la confisca definitiva: 4 anni e mezzo (4,58).
- i tempi da cui è attesa la destinazione delle aziende confiscate alle mafie (totale aziende ancora da destinare: 216) sono i seguenti:
0-4 mesi: lo 0,93% delle aziende (2);
da 4-12 mesi: il 10,19% delle aziende (22);
da 1-2 anni: il 31,48% delle aziende (68);
da 2-5 anni: il 33,33% delle aziende (72);
da 5-10 anni: il 13,89% delle aziende (30);
da oltre 10 anni: il 10,19% delle aziende (22).
Tempi medi di attesa: quasi 4 anni (3,78).
Chissà perchè da 5 anni a questa parte i dati statistici sui tempi non sono più rendicontati e resi noti dall’Agenzia nazionale…

Come abbiamo visto, secondo il rapporto dell’Agenzia per l’anno 2012, la stragrande maggioranza degli immobili confiscati, destinati e consegnati passa dalla proprietà statale a quella comunale (l’85,51%).

Ma i comuni come utilizzano questi beni?
Dobbiamo nuovamente ricorrere alle informazioni contenute nella relazione del 2009 presentata dal Commissario straordinario.
Sono stati interpellati tutti i 480 comuni assegnatari dei 3.796 immobili complessivamente consegnati dallo Stato centrale. Il 75,42% dei comuni (ovvero 362) ha risposto, per un corrispettivo di 3.141 immobili. Tutte le amministrazioni comunali interpellate dell’Italia settentrionale e centrale, della Basilicata e della Sardegna hanno fornito una risposta, mentre per il Sud Italia continentale (Campania, Calabria, Puglia e la stessa Basilicata) lo ha fatto il 72,86% dei comuni interpellati (145 su 199). Inquietante il dato siciliano: solo il 42,86% dei comuni interpellati ha voluto rispondere (48 su 112).
Dei 3.141 immobili consegnati ai comuni e di cui sono pervenute informazioni tra l’aprile e il novembre del 2009, soltanto il 47,41% viene utilizzato (1.489 immobili). I comuni del Nord utilizzano il 62,80% di tutti gli immobili a loro consegnati (319 su 508), quelli del Centro il 53,17% (109 immobili su 205), quelli del Sud continentale – ovvero Campania, Calabria, Puglia e Basilicata – il 35,29% (512 immobili su 1.451), infine quelli siciliani il 55,95% (522 immobili su 933). La regione più virtuosa è la Basilicata, dove sono stati utilizzati tutti gli immobili (7 su 7), mentre quella più inefficiente sono le Marche, dove non viene utilizzato neppure l’unico immobile consegnato.
Perchè 1.652 immobili confiscati ai mafiosi sono stati consegnati ai comuni e questi ultimi non li hanno utilizzati (secondo le informazioni pervenute tra l’aprile e il novembre del 2009)?
Il 29,24% degli immobili (483) non viene utilizzato perchè le procedure per l’utilizzo sono state avviate, ma non concluse;
il 18,40% degli immobili (304) perchè mancano le risorse finanziarie;
il 14,83% degli immobili (245) perchè sono in attesa dei finanziamenti;
il 5,99% degli immobili (99) perchè si tratta di beni inagibili;
il 2,78% degli immobili (46) perchè si tratta di beni in quota indivisa;
l’1,94% degli immobili (32) perchè si tratta di beni occupati dal prevenuto e/o dai suoi familiari;
l’1,88% degli immobili (31) perchè si tratta di beni occupati da terzi senza titolo;
l’1,69% degli immobili (28) perchè si tratta di beni occupati da terzi con titolo;
lo 0,73% degli immobili (12) perchè si tratta di beni gravati da procedura giudiziaria in corso;
lo 0,30% degli immobili (5) perchè si tratta di beni gravati da ipoteca;
il 22,22% degli immobili (367) perchè sussistono altri motivi.

In un’intervista del 27 dicembre 2012 rilasciata al giornalista Attilio Bolzoni per “la Repubblica”, don Luigi Ciotti – fondatore e presidente di “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie” – ha affermato:

“Dentro lo Stato ci sono stati anche uomini che si sono spesi e a volte anche strutture che hanno funzionato. Sono mancati gli strumenti giusti, è mancata in generale un’aggressione mirata alla questione dei beni confiscati. E poi ci sono state reti di complicità, ci sono stati ritardi, ci sono stati silenzi. E qualcuno che doveva metterci la testa su queste cose, la testa non ce l’ha messa. Per questo oggi è giusto dire che è una situazione che grida vendetta”.

D’altra parte, come giustamente ha ricordato Saverio Lodato, l’immagine dello Stato italiano contrapposto alle mafie è una “favoletta (…) che per un secolo e mezzo è stata propinata agli italiani come una dolciastra melassa”. In realtà “sono sempre esistiti, in Italia, lo Stato-Mafia e la Mafia-Stato. E mai, come in questo momento, le due entità sono diventate simbiotiche”(editoriale intitolato “40 anni di Stato-Mafia e Mafia-Stato”, pubblicato sul numero 71 – il primo del 2014 – della rivista “ANTIMAFIA Duemila”, uscito nel luglio scorso).

Non lo uccise la ‘ndrangeta, lo uccidono le banche

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Stanno per essere licenziati 40 dipendenti dell’azienda Demasi di Gioia Tauro. Dove non è riuscita la ‘ndrangheta ci stanno pensando le banche e al danno si aggiunge la beffa: sì, perché gli istituti di credito sono stati condannati, in via definitiva, per usura ai danni dell’imprenditore Antonino Demasi che è in attesa di un risarcimento milionario. Soldi che non arrivano fino a quando non si conclude il procedimento civile con il quale l’imprenditore, sotto scorta dopo le minacce declan locali, ha chiesto agli istituti bancari un risarcimento di 215 milioni di euro. Nel frattempo, oltre alle linee di credito, le banche gli hanno chiuso anche i conti correnti e ora Demasi sarà costretto a mandare in liquidazione la sua azienda nonostante le commesse che gli consentirebbero, al contrario, di fare assunzioni. Una storia assurda che vede la Fiom schierata al fianco del “padrone”. “È paradossale quello che sta succedendo a Gioia Tauro“, racconta il segretario provinciale del sindacato Pasquale Marino che chiede l’intervento del governo. “Io ho subito l’usura e la Cassazione ha stabilito che la responsabilità è delle banche. – spiega Demasi – È da 11 anni che sto cercando di farmi restituire quanto mi è stato rubato. Più di quello che ho fatto non posso, adesso ho l’obbligo giuridico di chiudere l’azienda il primo gennaio. Licenzierò tutti ma continuerò a battermi contro il mondo bancario. Ci sono tavoli di crisi aperti al ministero dello Sviluppo economico. È importante avere ben chiaro chi sono i criminali e chi sono le vittime”. Già nell’aprile scorso, della vicenda si era parlato durante il congresso della Fiom. Ma le parole del segretario Maurizio Landini e di don Ciotti sono rimaste inascoltate

(di Lucio Musolino)

Un sano ostracismo

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Un importante articolo de IlSole24Ore:

Repressione e partecipazione. Sono i due pilastri su cui si regge la possibilità di ridurre i fenomeni di criminalità che inquinano il Paese. Ma mentre la repressione, affidata allo Stato, ha via via affinato strumenti e capacità offensive, sul lato della società civile, le cose non vanno bene.

Ce lo ricordano alcuni volti seduti in Parlamento a legiferare, nonostante disavventure giudiziarie di ogni tipo; ce lo ricordano professionisti colti con le mani nella gelatina di favoreggiamenti, false attestazioni, perizie compiacenti, ma che nessuno cancella dagli albi; ce lo ricordano dipendenti pubblici che rubano, truccano carte e timbri, passano informazioni in cambio di denaro e restano al loro posto; ce lo ricordano gli imprenditori che invece di correre in Procura, si accordano in silenzio e alimentano il malaffare negli appalti. Fino a episodi che hanno dell’incredibile. E non ci riferiamo tanto agli inchini dei santi davanti alla casa dei boss o ai fuochi d’artificio e i caroselli di auto di un quartiere di Reggio Calabria, in onore di don Nuccio Cannizzaro, il prete “salvato” dalla prescrizione dopo aver testimoniato a favore di un criminale. Sono episodi antropologicamente misteriosi di un’Italia misconosciuta e confusiva. Ben più delle processioni ad personam, deve allarmare l’accoglienza riservata – e siamo a Roma, nell’estate 2012 – a un notissimo commercialista appena scarcerato dopo una retata di evasori fiscali.

Riportano le cronache locali, che mentre «al processo affiorano ulteriori elementi sul rapporto tra Carlo Mazzieri e Cesare Pambianchi »(già patron di Confcommercio e neopresidente di Assonautica) imputati di associazione a delinquere finalizzata alla frode fiscale, la Procura chiude una nuova tranche dell’inchiesta dalla quale, un anno prima, «erano scaturiti arresti eccellenti e sequestri milionari, con 703 aziende coinvolte». In quei mesi, Pambianchi aveva mantenuto la presidenza di Confcommercio Lazio e, successivamente, era anche stato nominato al vertice di Assonautica. Ed ecco che il cronista annota: «Cesare Pambianchi, Cesarone per gli amici, è tornato. È arrivato quasi in incognito e ha preso posto in platea: qualche abbraccio, qualche saluto ai presenti. E, dopo il convegno, la pausa pranzo: in piedi, al buffet, per un piatto di pasta e quattro chiacchiere insieme a un amico. Imbarazzo? Nessuno.

Ma, tra gli addetti ai lavori, la sua presenza non è passata inosservata». E c’è da crederci: nonostante sia finito in carcere e poi ai domiciliari, “Cesarone” non ha mollato la poltrona di Confcommercio Lazio. «Niente elezioni e, soprattutto, niente passo indietro volontario». Un episodio talmente sconcertante e significativo, da essere ricordato poche settimane fa a un convegno milanese dal Procuratore di Roma.
Ci sono voluti decenni e stragi terribili perché nelle coscienze maturasse una sana intolleranza per la mafia, ed ecco che ritroviamo i medesimi strabismi, gli stessi interessati silenzi, le stesse ambiguità e gli speciosi distinguo, nei confronti della corruzione e dei suoi longevi protagonisti. Non basta né serve arrestare un criminale, se questi viene poi reinserito senza pagare pegno negli stessi ambienti professionali da cui ci si aspetterebbe, invece, un sano ostracismo.

Opportunità e colpevolezza

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Ho passato i miei ultimi anni provando a riaccendere il senso di opportunità che abbiamo banalmente tralasciato sostituendolo con l’eventuale condanna o assoluzione (senza nemmeno riuscire a raccontare per bene cosa sia la prescrizione). Ne parlo ovunque: negli spettacoli, nei libri, nelle scuole. Tra i risultati nefasti di questa sclerotizzazione del senso di opportunità (e ovviamente inopportunità) c’è anche l’impunità politica di cui godono politici come Schifani, Formigoni (solo per citarne un paio, ma sono tantissimi) che nonostante siano talvolta stati assolti risultano chiaramente, carte alla mano, inopportuni in alcune loro amicizie e in alcuni loro comportamenti. Per questo credo che valga la pena leggere Alessandro Gilioli oggi su L’Espresso:

Ecco, da noi vent’anni di berlusconismo e antiberlusconismo, nonché di serrato confronto fra cosiddetti ‘garantisti’ e cosiddetti ‘giustizialisti’, ci hanno privati del giudizio politico. Siamo tutti lì incatenati ai tre gradi di decisioni togate, come se (almeno in alcuni casi) non potessimo esprimere un giudizio di opportunità politica a prescindere dalle sentenze.

E mi permetto di consigliare, a proposito di false innocenze, il mio libro qui.

(Autopromozione, sì.)

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