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Channel: Antimafia – Giulio Cavalli
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E’ arrivato il tritolo

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Schermata 2014-11-12 alle 23.28.55Ancora allarmi per il magistrato Nino Di Matteo, pubblico ministero del processo trattativa Stato-mafia. Secondo quanto scrive Repubblica, una fonte considerata “molto attendibile” dagli inquirenti ha rivelato che il tritolo per organizzare un attentato a Di Matteo si troverebbe già a Palermo, situato in diversi punti. Raccolto da diversi mesi, ormai, dalle famiglie mafiose palermitane. Le dichiarazioni della fonte in questione sono però poste sotto un rigido segreto investigativo.
È stato Leonardo Agueci, procuratore facente funzioni a Palermo, a comunicare l’emergenza sicurezza al Viminale. Nella mattinata di ieri ha avuto luogo un vertice con la presenza dei magistrati, delle forze dell’ordine, dei Gis dei carabinieri e dei Nocs della polizia, per potenziare le condizioni di sicurezza del pubblico ministero di Palermo.

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Vicino a Lirio Abbate

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Non sempre sono d’accordo con lui e nemmeno lui con me, credo. Ma di giornalisti così se ne sente tanto bisogno, soprattutto quando mettono le mani in pasta in una criminalità così difficilmente decifrabile come quella romana. L’ultimo episodio è preoccupante, davvero.

Gli amici (vigliacchi) di Di Matteo

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Due o tre cose che sentivo di dover scrivere su Nino Di Matteo, sui silenzi istituzionali e su tutta questa tiepidezza codarda in giro: potete leggerle qui.

Operazione “Insubria”: i nomi degli arrestati

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Gli arresti dell’operazione “Insubria“. Le persone arrestate oggi, quasi tutte residenti in Lombardia, per associazione di tipo mafioso, estorsione, detenzione e porto abusivo di armi sono:

CUSTODIA CAUTELARE IN CARCERE (35):

1. Puglisi Giuseppe, inteso “Melangiana”, 53 anni, nato a Messina e residente a Cermenate (CO), operaio, già coinvolto, sebbene poi assolto, nell’indagine del 1994 sulla ‘ndrangheta in Lombardia nota come “Fiori della notte di San Vito”. Nell’ambito della presente indagine, Puglisi Giuseppe è emerso quale “capo” del “locale di Cermenate”, in possesso della “dote” di “Quartino”.

2. Mercuri Antonino, inteso “Pizzicaferro”, 64 anni, nato a Giffone (RC) residente a Airuno (LC). Nell’ambito della presente indagine, Mercuri Antonino è emerso quale “capo” del “locale di Calolziocorte”, in possesso della “dote” di “Padrino”.

3. Mandaglio Antonio, inteso “Occhiazzi”, 60 anni, nato a Giffone (RC), residente a Carenno (LC), pensionato, già coinvolto, sebbene poi assolto, nell’indagine del 1994 sulla ‘ndrangheta in Lombardia nota come “Fiori della notte di San Vito”. Nell’ambito della presente indagine, Mandaglio Antonio è emerso quale “capo società” del “locale di Calolziocorte”, in possesso di “dote” pari o superiore a “trequartino”.

4. Chindamo Michelangelo, 61 anni, nato a Palmi (RC), residente a Cadorago (CO), già condannato per associazione mafiosa e traffico di stupefacenti nell’indagine del 1994 sulla ‘ndrangheta in Lombardia “Fiori della notte di San Vito”. Nell’ambito della presente indagine, Chindamo Michelangelo è emerso quale “capo” del “locale di Fino Mornasco”, in possesso della “dote” di “trequartino”.

5. Adducci Angiolino, 63 anni, nato a Grisolia (CS), residente a Lentate sul Seveso (MB), imprenditore, già condannato ad anni 3 di reclusione a seguito dell’indagine del 1996 sulla ‘ndrangheta in Lombardia nota come “Fiori della notte di San Vito 2”. Nell’ambito della presente indagine Adducci Angiolino è emerso quale “affiliato” al “locale di Cermenate”, in possesso della “dote” di “sgarro”.

6. Ambresi Pasquale, 55 anni, nato a Oppido Mamertina (RC), residente a Cadorago (CO), camionista. Nell’ambito della presente indagine Ambresi Pasquale è emerso quale “affiliato” al “locale di Cermenate”, in possesso della dote di “camorrista di sgarro”.

7. Monteleone Giuseppe, 25 anni, inteso “Baciulo”, nato a Cinquefrondi (RC), residente a Bregnano (CO), operaio. Nell’ambito della presente indagine Monteleone Giuseppe è emerso quale “affiliato” al “locale di Cermenate”, in possesso della dote di “camorra”.

8. Paviglianiti Marco, 30 anni, nato a Cantù (CO), residente a Lomazzo (CO). Nell’ambito della presente indagine Paviglianiti Marco è emerso quale “affiliato” al “locale di Cermenate”, in possesso di una dote allo stato non determinata.

9. Puglisi Giovanni, 20 anni, nato a Cantù (CO), residente a Cermenate (CO), figlio dell’indagato Puglisi Giuseppe, “capo” del “locale di Cermenate”. Nell’ambito della presente indagine PUGLISI Giovanni è emerso quale “affiliato” al “locale di Cermenate”, in possesso della “dote” di “sgarro”.

10. Scali Giuseppe Salvatore, 78 anni, inteso “Tarzan”, nato a Grotteria (RC), residente a Cantù (CO), pensionato, già condannato ad anni 18 di reclusione per associazione mafiosa e traffico di stupefacenti, a seguito dell’indagine del 1994 sulla ‘ndrangheta in Lombardia nota come “I fiori della notte di San Vito”. Nell’ambito della presente indagine, Scali Giuseppe Salvatore è emerso quale “affiliato” al “locale di Cermenate”, in possesso della “dote” di “trequartino”.

11. Sciacca Filippo, 51 anni, nato a Giffone (RC), residente a Cadorago (CO), operaio. Nell’ambito della presente indagine Sciacca Filippo è emerso quale “affiliato” al “locale di Cermenate”, in possesso di una dote pari o superiore alla “Santa”.

12. Valente Ivano Bartolomeo, 25 anni, nato a Cinquefrondi (RC), residente a Guanzate (CO), operaio, nipote dell’indagato Puglisi Giuseppe, “capo” del “Locale di Cermenate”. Nell’ambito della presente indagine Valente Ivano Bartolomeo è emerso quale “affiliato” al “locale di Cermenate”, in possesso della dote della “Santa”.

13. Condò Marco, 43 anni, nato a Lecco (LC), residente a Sotto il Monte Giovanni XXIII (BG), operaio, fratello degli indagati Condò Ivan e Condò Antonio, entrambi affiliati al “locale di Calolziocorte”. Nell’ambito della presente indagine, Condò Marco è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte” con funzioni di “Mastro di Giornata”, in possesso della “dote” di “Vangelo”.

14. Buttà Giovanni, 52 anni, nato a Caronia (ME), residente a Calolziocorte (LC), già condannato per omicidio in concorso, operaio. Nell’ambito della presente indagine, Buttà Giovanni è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso di “dote” della “Santa”.

15. Condò Antonio, 44 anni, nato a Lecco (LC), residente a Torre de’ Busi (LC), camionista, fratello degli indagati Condò Ivan e Condò Marco, entrambi affiliati al “locale di Calolziocorte”. Nell’ambito della presente indagine, CONDÒ Antonio è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso della “dote” pari o superiore al “Vangelo”.

16. Condò Ivan, 39 anni, nato a Lecco (LC), residente a Calolziocorte (LC), camionista, fratello degli indagati Condò Antonio e Condò Marco, entrambi affiliati al “locale di Calolziocorte”. Nell’ambito della presente indagine, Condò Ivan è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso di una “dote” allo stato non determinata.

17. Gozzo Rosario, 50 anni, nato a Giffone (RC), residente a Carenno (LC), operaio. Nell’ambito della presente indagine, Gozzo Rosario è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso della “dote” di “Vangelo”.

18. Lamanna Domenico, 64 anni, nato a Laureana di Borrello (RC), residente a Calolziocorte (LC), elettricista, già coinvolto, sebbene poi assolto, per i reati di associazione mafiosa e associazione finalizzata al traffico di stupefacenti nell’indagine del 1996 sulla ‘ndrangheta in Lombardia nota come “I Fiori della notte di San Vito 2”. Nell’ambito della presente indagine, Lamanna Domenico è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso di “dote” pari o superiore alla “Santa”.

19. Mandaglio Bartolomeo, 56 anni, nato a Giffone (RC), residente a Vercurago (LC), imprenditore edile, cugino dell’indagato Valente Salvatore Pietro. Nell’ambito della presente indagine, Mandaglio Bartolomeo è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso della “dote” di “Vangelo”.

20. Mandaglio Luca, 30 anni, nato a Lecco, residente a Olgiate Comasco (CO), cameriere, figlio dell’indagatoMandaglio Antonio, “capo società” del “locale di Calolziocorte”. Nell’ambito della presente indagine MANDAGLIO Luca è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso della dote della “Santa”.

21. Marinaro Giovanni, 54 anni, nato a Caronia (ME), residente a Calolziocorte (LC), imbianchino, già condannato per i reati di associazione mafiosa e traffico di stupefacenti nell’indagine sulla ‘ndrangheta in Lombardia nota come “Wall Street”. Nell’ambito della presente indagine, Marinaro Giovanni è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso della “dote” di “Vangelo”.

22. Montagnese Nicholas, 22 anni, nato a Lecco, residente a Torre de’ Busi (LC), rispettivamente nipote e pronipote degli indagati Valente Salvatore Pietro e Mandaglio Bartolomeo, entrambi affiliati al “locale di Calolziocorte”. Nell’ambito della presente indagine Montagnese Nicholas è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso della dote di “picciotto”.

23. Panuccio Albano, 33 anni, nato a Oggiono (LC), residente a Dolzago (LC), operaio, rispettivamente figlio, nipote e cugino degli indagati Panuccio Albano, Panuccio Antonino e Gozzo Rosario, tutti ”affiliati” al “locale di Calolziocorte”. Nell’ambito della presente indagine Panuccio Albano è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso della “dote” di “Sgarro”.

24. Panuccio Antonino, 57 anni, nato a Giffone (LC), residente a Dolzago (LC), operaio, rispettivamente fratello e zio degli indagati Panuccio Michelangelo e Panuccio Albano, entrambi ”affiliati” al “locale di Calolziocorte”. Nell’ambito della presente indagine Panuccio Antonino è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso della “dote” di “Vangelo”.

25. Petrolo Francesco, 56 anni, nato a Giffone (RC), residente a Torre de’ Busi (LC). Nell’ambito della presente indagine, Petrolo Francesco è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso della “dote” di “trequartino”.

26. Valente Salvatore Pietro, 48 anni, nato a Taurianova (RC), residente a Torre de’ Busi (LC), operaio, cugino dell’indagato Puglisi Giuseppe “capo” del “locale di Cermenate”, e dell’indagato Mandaglio Bartolomeo ”affiliato” al “locale di Calolziocorte”; padre dell’indagato minorenne Valente Manuel Bartolo e zio dell’indagato Montagnese Nicholas, entrambi affiliati al “locale di Calolziocorte”; Nell’ambito della presente indagine Valente Salvatore Pietro è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso della “dote” di “Vangelo”.

27. Varrone Vittorio, 41 anni, nato a Belcastro (CZ), residente a Lecco (LC), operaio. Nell’ambito della presente indagine, Varrone Vittorio è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso della “dote” della “Santa”.

28. Gallo Fortunato, 62 anni, nato a Giffone (RC), residente a Carimate (CO), pensionato, già condannato ad anni 4 di reclusione a seguito dell’indagine del 1996 sulla ‘ndrangheta in Lombardia nota come “I fiori della notte di San Vito 2”. Nell’ambito della presente indagine Gallo Fortunato è emerso quale “affiliato” del “locale di Fino Mornasco”, in possesso della “dote” di “trequartino”.

29. Gentile Antonio, 38 anni, nato a Cittanova (RC), ivi residente, pizzaiolo, già condannato per reati in materia di stupefacenti, armi e rapina. Nell’ambito della presente indagine, Gentile Antonio è emerso quale “affiliato” del “locale di Fino Mornasco”, in possesso di una “dote” allo stato non determinata.

30. Greco Giuseppe, 31 anni, nato a Como, residente a Bregnano (CO), commerciante, già condannato per reati contro la persona. Nell’ambito della presente indagine, Greco Giuseppe è emerso quale “affiliato” del “locale di Fino Mornasco”, in possesso di una “dote” pari o superiore a “camorrista di sgarro”.

31. Iacopetta Salvatore, 39 anni, nato a Locri (RC), residente a Bulgarograsso (CO), camionista. Nell’ambito della presente indagine Iacopetta Salvatore è emerso quale “affiliato” del “locale di Fino Mornasco”, in possesso di una dote allo stato non determinata.

32. Larosa Michelangelo, 43 anni, inteso “Bocconcino”, nato a Giffone (RC), di fatto domiciliato a Milano, cognato dell’indagato Larosa Giuseppe (Polistena, RC, 20/07/1965), “capo” del “locale di Giffone”. Nell’ambito della presente indagine Larosa Michelangelo è emerso quale “affiliato” del “locale di Fino Mornasco”, in possesso di dote pari o superiore al “Vangelo”.

33. Mercuri Bruno, 62 anni, nato a Giffone (RC), residente a Bulgarograsso (CO), già coinvolto, sebbene poi assolto, per i reati di associazione mafiosa e traffico di stupefacenti nell’indagine del 1996 sulla ‘ndrangheta in Lombardia “I Fiori della notte di San Vito 2”. Nell’ambito della presente indagine, Mercuri Bruno è emerso quale “affiliato” del “locale di Fino Mornasco”, in possesso della “dote” della “Santa”.

34. Rullo Alfredo, 59 anni, nato a Giffone (RC), residente a Cadorago (CO). Nell’ambito della presente indagine Rullo Alfredo è emerso quale “affiliato” del “locale di Fino Mornasco”, in possesso della dote della “Santa”.

35. Rullo Luciano, 47 anni, nato a Como, residente a Fino Mornasco (CO), cugino dell’indagato Larosa Salvatore, affiliato al “locale di Fino Mornasco”. Nell’ambito della presente indagine Rullo Luciano è emerso quale “affiliato” del “locale di Fino Mornasco”, in possesso della “dote” di “Vangelo”.

36. Massimo Iacopetta, 36 anni, nato a Locri (RC) e residente a Vertemate con Minoprio, nella cui abitazione è stata rinvenuta e sequestrata una pistola . Iacopetta era indagato in stato di libertà e destinatario solo di una perquisizione, poichè dalle intercettazioni effettuate durante le indagini erano emersi indizi circa il possesso da parte sua di armi illegalmente detenute; Iacopetta è stato arrestato in flagranza, per il possesso illegale di una pistola,

 

IN CUSTODIA CAUTELARE AGLI ARRESTI DOMICILIARI (3):

37. Bersani Giuseppe, 49 anni, nato a Carate Brianza (MB), residente a Gudo (Svizzera), imprenditore metallurgico.

38. Mirandi Renato, 46 anni, nato a Como, residente a Olgiate Comasco (CO), imprenditore.

39. Panuccio Michelangelo, 61 anni, nato a Giffone (RC), residente a Dolzago (LC), “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso di “dote” pari o superiore al “vangelo”.

Nel nome di Garibaldi, Mazzini e La Marmora, con parole d’umiltà formo la santa società …

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“Buon vespero e santa sera ai santisti! Giustappunto in questa santa sera, nel silenzio della notte e sotto la luce delle stelle e lo splendore della luna, formo la catena! Nel nome di Garibaldi, Mazzini e La Marmora, con parole d’umiltà formo la santa società …”. E’ il boss che parla. Gli altri affiliati, riuniti in cerchio, ascoltano in silenzio. La sacralità del rito ricorda una messa, invece si tratta della cerimonia di conferimento della Santa, il più alto grado di affiliazione ‘ndranghetista. Che va in scena non in Calabria, ma nella Lombardia di Expo. Finora, solo i pentiti (pochi) lo avevano raccontato. Adesso, le telecamere nascoste del Ros dei carabinieri di Milano lo mostrano per la prima volta nella sua interezza. Fermi immagine definiti storici dagli inquirenti che questa mattina hanno arrestato 40 persone nell’ambito dell’indagine coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia milanese. Un altro duro colpo alla ‘ndrangheta del nord inferto dai carabinieri guidati dal tenente colonnello Giovanni Sozzo. Che arriva a pochi giorni di distanza da un’altra operazione che ha smascherato gli appetiti dei mammasantissima attorno ai subappalti dell’Esposizione universale.

L’ordinanza di custodia cautelare in carcere è stata firmata dal gip Simone Luerti. Le accuse a vario titolo contro i 40 indagati sono associazione di tipo mafioso, estorsione, detenzione e porto abusivo di armi. Al centro dell’operazione “Insubria“, nata dalla storica inchiesta “Infinito“, la prima a riconoscere il radicamento al nord italia delle cosche calabresi, tre sodalizi della ‘ndrangheta radicati nel comasco e nel lecchese, con diffuse infiltrazioni nel tessuto locale e saldi collegamenti con le famiglie di origine. Oltre alla Lombardia (Milano, Como, Lecco, Monza-Brianza, Bergamo), gli arresti sono avvenuti anche in provincia di Verona e Caltanissetta. L’inchiesta della Dda, coordinata dai pm Ilda Boccassini, Paolo Storari e Francesca Celle, ha riguardato in particolare le cosche dei comuni brianzoli di Calolziocorte, di Cermenate e di Fino Mornasco, tutte facenti parte della nuova ‘Ndrangheta del Nord Italia, chiamata “La Lombardia”.

Dopo due anni di intercettazioni ambientali e filmati, sono stati documentati, in particolare, i rituali mafiosi per il conferimento delle cariche interne e le modalità di affiliazione. È la prima volta che viene ripresa la cerimonia di conferimento della Santa. I filmati, che riprendono i boss durante le cosiddette “mangiate“, mostrano l’uso di un linguaggio in codice, in cui il capo della locale viene chiamato Garibaldi, il contabile Mazzini, mentre il Mastro di giornata, tra le più alte cariche dell’associazione, viene chiamato La Marmora. Un altro filmato mostra tutta la violenza delle ‘ndrine: i giuramenti vengono fatti davanti con una pistola e una pastiglia di cianuro, che servono come monito al nuovo affiliato sulla sua sorte in caso di tradimento o “grave trascuranza”. Quanti colpi ha in canna, ne dovete riservare sempre uno!”, spiegano i boss, intercettati, altrimenti c’è sempre “una pastiglia di cianuro” oppure “vi buttate dalla montagna”.

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Sempre sull’attentato a Di Matteo

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Un importante articolo di Riccardo Lo Verso:

Gli episodi sono sempre più circoscritti. È nel dicembre 2012 che la mafia avrebbe iniziato a progettare l’attentato al pubblico ministero di Palermo Nino Di Matteo. Si tratta dell’attentato di cui parla oggi Vito Galatolo, il boss che, prima ancora di pentirsi, si è voluto togliere un peso dalla coscienza. “Ci sono dietro gli stessi mandanti di Borsellino”, ha detto il capomafia aprendo scenari ancora più inquietanti.

Un direttorio ristretto di boss avrebbe deciso di sfidare lo Stato colpendo uno degli uomini simbolo della lotta a Cosa nostra. Oggi i boss che avrebbero fatto parte del piano, coordinato dallo stesso Galatolo, sono tutti in cella. Il progetto di morte è andato avanti per dua anni. Poi, il blitz Apocalisse di cinque mesi fa avrebbe evitato il peggio. Era pronto persino l’esplosivo che in questi giorni gli uomini della Dia hanno cercato senza successo nelle campagne di Monreale dove c’è la villetta di uno dei 95 arrestati del mega blitz di giugno.

Si scopre che ci furono grandi preparativi fra l’8 e il 9 dicembre di due anni fa per fare incontrare Girolamo Biondino – fratello di Salvatore, l’autista di Totò Riina – e Vito Galatolo. Entrambi sono finiti in carcere nel blitz Apocalisse del giugno scorso. Sono accusati il primo di essere il capo mandamento di San Lorenzo-Tommaso Natale e il secondo di avere guidato la famiglia dell’Acquasanta. Solo la prudenza di Biondino, che aveva già scontato una lunga pena, gli suggerì di defilarsi all’ultimo minuto. Forse aveva capito di essere pedinato. E così Galatolo avrebbe incontrato i rappresentanti delle famiglie di Partanna Mondello e Tommaso Natale. Il boss dell’Acquasanta che ha deciso di pentirsi colloca in quella stagione di summit l’inizio del progetto di uccidere Di Matteo.

Il rampollo di una delle più blasonate famiglie mafiose si trovava in città per seguire un processo. Era stato da poco scarcerato. Aveva, però, il divieto di soggiorno a Palermo e si era trasferito a Mestre. Con un apposito permesso gli era stato dato il via libera per presenziare alle udienze. L’organizzazione dell’incontro sarebbe stata affidata a due picciotti.

Alle ore 19:05 dell’8 dicembre di due anni viene intercettato in macchina Roberto Sardisco, braccio destro di Silvio Guerrera, considerato il reggente della famiglia di Tommaso Natale. A bordo di una Fiat 500 raggiungono un bar a Tommaso Natale. Sardisco scende dalla macchina e sale su un furgone. Alla guida c’è un altro indagato. Assieme arrivano al civico 61 di via Barcarello dove c’è la villetta di Mimmo Biondino. Entrano in casa. Pochi minuti dopo Sardisco telefona a Guerrera: “Domani alle dieci”. Secondo gli investigatori, è la conferma dell’appuntamento. Infine arriva una telefonata a casa di Galatolo dove l’uomo sta cenando con la moglie: “… telefonò Vito e ha detto che potete scendere che aspetta a noi per mangiare”.

Il 9 dicembre gli investigatori sono pronti a monitorare gli spostamenti di tutti i protagonisti. Quattro minuti dopo le 9 Guerrera è in macchina. Sardisco passa sotto casa di Tommaso Masino Contino, in cella con l’accusa di essere il capo della famiglia di Partanna Mondello. Nel frattempo, Biondino esce di casa a piedi. Percorre le vie Barcarello, del Tritone e del Mandarino e sale sulla Citroen C4 di Guerrera. La macchina è imbottita di microspie. Biondino si informa: “Che c’è Vito?”. Risposta affermativa. Guerrera, però, spiega che “a Masino non l’ho potuto trovare”. Biondino si rammarica: “Ci voleva Masino… ci voleva per certi discorsi… Masino ci vuole perché sa tanti discorsi”. Poi inizia a innervosirsi: “Dove dobbiamo salire? Là? Neanche io lo so, dove vuoi posteggiare posteggi, dove ci portano queste teste di minchia… li prenderei a calci nel culo a queste teste di… entra là dentro… abbiamo tante cose… da discutere”.

Gli inquirenti li hanno seguito passo dopo passo. Dopo aver percorso le vie Rosario Nicoletti, Partanna Mondello ed Emilio Salgari si sono fermati in via Jack London. Sono scesi dalla macchina per entrare nel condominio al civico 31 di via Partanna Mondello. Dopo pochi minuti, però, Biondino e Guerrera escono. Salgono in macchina e vengono intercettati in via Lanza di Scalea. L’incontro è saltato. Biondino deve avere fiutato qualcosa. Forse i movimenti delle forze dell’ordine.

Nel pomeriggio della stessa giornata vengono monitorati nuovi spostamenti. C’è una novità importante: Biondino si è defilato. Guerrera e Contino si spostano a bordo di una Smart. “Dobbiamo andare in corso Tukory… è da stamattina che mi rompo i… – spiega Guerrera – mi stavano facendo attummuliari stamattina. Stamattina non ti ho potuto trovare… hanno una cosa urgente, subito”. Alle 17 e 30 arrivano in via Lincoln. E si spostano in macchina verso una zona Secondo gli investigatori, avrebbero incontrato da qualche parte Vito Galatolo.

Cosa c’era di così urgente da trattare? Probabilmente in pochi, pochissimi erano a conoscenza dell’argomento. Non a caso Galatolo avrebbe parlato di un numero ristretto di personaggi, legati anche ad altri mandamenti della città, che a loro volta avrebbero partecipato ad altri summit su cui adesso si dovrà fare luce.

Perché nel dicembre 2012 la mafia inizia a progettare un attentato contro Nino Di Matteo.C’entrano il processo e l’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia di cui il pubblico ministero si occupa assieme ai colleghi Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia? Le indiscrezioni che trapelano addensano l’ombra dei mandanti esterni. Soggetti diversi da Cosa nostra potrebbero avere deciso di servrsi dei boss per colpire loro obiettivi. Anche di questo avrebbe parlato Galatolo, figlio di Enzo, capomafia dell’Acquasanta coinvolto nelle stragi del’92 e in omicidi eccellenti come quello del giudice istruttore Rocco Chinnici.

Galatolo, 41 anni, detto “u picciriddu”, avrebbe deciso di vuotare il sacco temendo che che l’attentato potesse ancora essere realizzato. Troppo alto il rischio di subirene le conseguenze giudiziarie. Galatolo ha parlato anche dell’arrivo in città di un carico di esplosivo di cui, però, non c’è traccia. Gli investigatori lo hanno cercato in una villetta di Vincenzo Graziano. Già condannato per Mafia, Graziano aveva finito di scontare la pena nel 2012, ma è tornato in cella nel blitz Apocalisse con l’accusa di essere il regista del monopolio, realizzato d’intesa con Galatolo, nel settore delle slot machines e delle scommesse sportive on line. Gli veniva inoltre contestato, sulla base delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Sergio Flamia, di avere affiliato, assieme a Galatolo, mentre si trovavano in carcere, un nuovo uomo d’onore. Accuse che, però, non hanno retto al vaglio del Tribunale del Riesame e Graziano è stato scarcerato.

Del tritolo non c’è traccia. Qualcuno potrebbe avere già provveduto a ripulire i luogo dove era stato custodito. E poi ci sono le menti esterne. Quelle che, secondo Galatolo, avrebbero voluto la morte del giudice Borsellino e ora spingevano per assassinare Di Matteo.

Operazione “Caronte”: finalmente chiara la mafiosità di Vincenzo Ercolano?

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Ventitré arresti e cinquanta milioni di euro sequestrati sono le cifre dell’operazione “Caronte” condotta dai Ros di Catania sotto il coordinamento dei magistrati Agata Santonocito e Antonino Fanara sul connubio tra mafia, politica e imprenditoria nel settore dei trasporti in Sicilia. In manette è finito il noto imprenditore catanese Vincenzo Ercolano titolare della ‘Geotrans Srl’ ed ex presidente della Federazione Autotrasportatori Italiana nella provincia etnea, che solo alle pendici dell’Etna conta circa 1500 addetti. Ercolano fa parte di una famiglia legata al mondo dei trasporti e nello stesso tempo a Cosa Nostra, il padre Giuseppe, detto anche “Zu Pippu”, era considerato da molti ‘il re degli ortofrutticoli’ e più volte coinvolto in inchieste di mafia, mentre il fratello Aldo e lo zio Benedetto Santapaola sono ormai da anni al 41bis, condannati all’ergastolo come capi di Cosa Nostra etnea. Nell’ordinanza di custudia cautelare emessa dal Gip anche i fratelli Vincenzo Aiello, già detenuto e condannato in primo grado nel processo “Iblis” a 22 anni per mafia, e Alfio Aiello, condannato in appello per associazione mafiosa.

Secondo gli inquirenti, l’asse Ercolano-Aiello operava nel settore logistico avvalendosi degli “imprenditori-affiliati” Francesco Caruso e Giuseppe Scuto, titolari di alcune ditte di trasporti, fornendo loro il sostegno negli affari avendone un notevole tornaconto. Tra gli interessi finiti sotto la lente della Procura di Catania guidata da Giovanni Salvi, anche il contratto stipulato, tra il 2005 e il 2006, dalla ‘Servizi Autostrade del Mare’ di Caruso con la ‘Amadeus Spa’, società riconducibile ad Amadeo Matacena, parlamentare Pdl e imprenditore calabrese attualmente latitante a Dubai già condannato in via definitiva a cinque anni di reclusione, più l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, per concorso esterno in associazione mafiosa, vicenda nella quale è stato coinvolto anche l’ex ministro Scajola, arrestato dalla Dia di Reggio Calabria, accusato di aver favorito la sua fuga all’estero. Matacena avrebbe fornito l’affitto di tre navi per permettere il transito dei tir e favorire il collegamento tra la Sicilia e la Calabria, per un costo complessivo stimato intorno a 120 mila euro al mese. Nonostante l’attività avesse ottenuto risultati notevoli, dopo circa 90 giorni il contratto venne interrotto e le parti si divisero.

Ercolano, qualche anno più tardi, proverà nuovamente ad usufruire degli ‘ecobonus’ europei per autotrasportatori che usano gli spostamenti marittmi, facendo il suo ingresso nel ‘Consorzio Ruote sul Mare’, senza però riuscirci in quando la società era già in fase di liquidazione. L’interesse verso gli ‘ecobonus’, aggiunge il Gip, aveva spinto la coppia Caruso-Scuto a prendere contatti anche con “esponenti politici di alto livello” che potessero in qualche modo aiutarli ad “accellerare le pratiche amministrative”. Nel 2008 fondano quindi il Partito Nazionale degli Autotrasportatori, con l’interesse di tutelare l’intera categoria della logistica e tramite l’ex deputato regionale Giovanni Cristaudo, condannato in appello a cinque anni per concorso esterno, sostengono alle elezioni europee del 2009 l’ex presidente della Regione Sicilia e leader del Movimento per le Autonomie Raffalele Lombardo, recentemente condannato in primo grado a 6 anni e 8 mesi per mafia nel processo Iblis. Durante la campagna elettorale vennero utilizzati i camion dell’PNA per pubblicizzare il logo del partito e l’immagine di Lombardo.

Nella lista degli affari della famiglia Santapaola-Ercolano c’era pure la fornitura della carne per la grande distribuzione. I tagli che finivano sui banconi degli hard discount Forté ed Eurospin Sicilia venivano controllati, secondo gli inquirenti, da Cosa nostra catanese tramite due imprenditori compiacenti.

(click)

L’Europa, le mafie e i reati ambientali

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Eurojust, organismo Ue per la cooperazione giudiziaria, rivela che la mafia e i gruppi della criminalità organizzata sono responsabili della criminalità ambientale transfrontaliera. E paradossalmente, nonostante si stimino profitti illegali tra i 30 ed i 70 miliardi di euro l’anno (fonte Oecd), le statistiche mostrano che i crimini contro l’ambiente sono raramente perseguiti dalle autorità nazionali. Nonostante la necessità di un approccio transnazionale, il numero dei casi riferiti ad Eurojust è molto basso. Ma i delitti contro l’ambiente riguardano la società nel suo complesso: dalla salute dell’uomo e degli animali alla qualità dell’aria, del suolo e dell’acqua. La lunga lista dei reati ambientali comprende: rifiuti pericolosi esportati da Italia e Irlanda verso Stati terzi; l’inquinamento delle acque in Ungheria e Svezia; l’export illecito di lupi, scimmie e uova di uccelli.

Questo primo rapporto sui crimini contro l’ambiente si concentra su tre argomenti: traffico di specie in via d’estinzione; traffico illegale di rifiuti e acque inquinate. La relazione prende in esame le strutture nazionali di controllo, l’accesso alle competenze, così come le possibili soluzioni per affrontare queste sfide. Secondo quanto emerge a livello europeo: i proventi dei reati ambientali sono molto elevati, ma le sanzioni basse. Non si indaga abbastanza sul traffico illegale di rifiuti. Vi è un vuoto nel coordinamento delle autorità competenti sia a livello nazionale che internazionale. In larga misura, le autorità nazionali non riescono ad affrontare i casi in modo transnazionale. L’attuazione della normativa Ue a livello nazionale è diversa da uno Stato all’altro, fattore che ostacola un approccio transnazionale armonizzato. Alcuni Stati non hanno neppure strutture organizzative adeguate.

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Beni confiscati nel Lazio

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“Confiscati Bene” è un progetto partecipativo per l’apertura dei dati sui beni confiscati, nato da un’idea della comunità Spaghetti Open Data e sviluppato da Dataninja.it, in collaborazione con Monithon.it e Twinbit.it.
Il gruppo di lavoro ha estratto, “ripulito” ed analizzato i dati ufficiali sparsi sul sito dell’Agenzia Nazionale per i Beni Sequestrati e Confiscati (Anbsc) e in altri dataset istituzionali, raccogliendoli inunico catalogo dati raggiungibile dal portale www.confiscatibene.it liberamente scaricabile e riutilizzabile. Sul sito del progetto i dati sono navigabili su mappa open source. Lo scorso settembre i Dataninja, in collaborazione con le testate locali del gruppo Repubblica-l’Espresso, hanno coordinato un’inchiesta di datajournalism per presentare i dati sui beni confiscati in dieci Regioni italiane.

Con 645 beni confiscati censiti dall’Anbsc, il Lazio è la sesta Regione italiana per presenza di beni sottratti alla criminalità organizzata. Sale quinta nel ranking nazionale, superando Sicilia, Campania, Lombardia e Calabria, se si considera il numero di aziende confiscate, 140: oltre l’8% delle aziende italianesottratte ai boss è qui.

I dati delineano l’ampiezza del fenomeno criminale e danno un’idea, seppur lontana dalla consistenza effettiva, di quali siano gli investimenti mafiosi nella Regione, concentrati in diversi settori economici: edilizia, ciclo del cemento, appalti, ristorazione, turismo, commercio, distribuzione di prodotti ortofrutticoli, usura e compro oro.

Una presenza sistematica e capillare sul territorio: dal sud pontino nel basso Lazio, lungo il litorale tirrenico, fino all’area metropolitana della capitale e più a nord, nel Lazio settentrionale. In queste zone Cosa nostra, ‘ndrine calabresi, clan camorristici e gruppi “autoctoni” (tra cui le “rimanenze” della banda della Magliana), si spartiscono affari milionari in maniera più o meno cooperativa, a seconda della convenienza del momento. Penetrano nel tessuto economico della regione, grazie alla copertura della cosiddetta area grigia dei colletti bianchi, rimettendo in circuito nell’economia legale gli ingenti capitali accumulati dalle attività illecite, legate in primis al traffico di stupefacenti e all’usura.

I dati della Dia relativi al numero di procedimenti di confiscaconfermano la tendenza: sono 85 nel biennio 2012-2013, erano 32 nel biennio precedente (+53), un dato che fa del Lazio la quinta regione per procedimenti dopo le quattro regioni del sud, storicamente interessate dal fenomeno mafioso. A livello di distretti giudiziari, nel 2013 sono 69 i nuovi procedimenti a Roma, che sale in classifica seconda dopo Palermo (e il dato è parziale: aggiornato al 30 settembre 2013).

Il Lazio sotto assedio: i dati dell’Anbsc Provincia per Provincia

In ambito nazionale Roma è la settima provincia, con 479 beni confiscati, di cui 118 sono aziende: quasi l’85% delle imprese confiscate in Lazio è nella sola provincia capitolina. Simbolo di come la metropoli, cuore politico ed economico del Paese, sia da decenni crocevia di investimenti e interessi criminali. La maggior parte dei beni (335, il 52% del totale regionale) è concentrata a Roma, che nella classifica dei comuni italiani sale al terzo posto dopo Milano e Palermo, e nei comuni dell’hinterland, la zona dei Castelli Romani. Qui lo Stato ha sottratto immobili un tempo nella disponibilità di cosche calabresi, clan camorristici e boss della banda della Magliana.

Ad Ardea e ad Anzio sono state confiscate due lussuose ville ad Enrico Nicoletti, ex cassiere della banda della Magliana, mentre a Grottaferrata, il terzo comune dei Castelli più interessato dalle confische, dopo Monterotondo e Pomezia, i beni appartenevano per la maggior parte all’ex re delle bische clandestine, Aldo de Benedettis. Un solo bene risulta confiscato a Nettuno, il primo ed unico comune del Lazio sciolto per infiltrazioni da parte della ‘ndrangheta nel 2005. A Roma le confische più significative colpiscono ristoranti, alberghi e caffè dai nomi prestigiosi, “lavanderie” intestate a prestanome che le mafie utilizzano come copertura per ripulire ingenti capitali illeciti. È il caso del celebre Café de Paris, storico simbolo della dolce vita felliniana: il bar era controllato dalla famiglia calabrese degli Alvaro di Cosoleto. Così come il noto ristorante George’s, sempre nella disponibilità degli Alvaro, o l’antico Caffè Chigi, confiscato in via definitiva ad un’altra famiglia ‘ndranghetista. L’elenco purtroppo è sconfinato, destinato a crescere: recentissima è la confisca del Caffè Fiume, a due passi da via Vittorio Veneto, eseguita dalla Dia di Roma.

La presenza delle mafie, e della camorra in particolare, risulta più strutturata e consolidata nella zona del sud pontino: Latina, con 93 beni, è la seconda provincia laziale per beni confiscati. Gaeta e Fondi (il primo consiglio comunale “non sciolto” per mafia, nonostante il pesante condizionamento da parte della ‘ndrangheta sull’attività amministrativa fosse stato dimostrato dal processo “Damasco 2”) sono i comuni più interessati dalle confische: a Fondi c’è uno dei più grandi mercati ortofrutticoli d’Europa, centro di grandi interessi commerciali e di lucrosi affari mafiosi. Gaeta detiene un piccolo record: qui, secondo l’Anbsc, il 100% dei beni risulta destinato e consegnato. Recentemente una confisca disposta dal Tribunale di Latina ha sottratto a clan camorristici operanti tra Napoli e Latina beni per un ammontare di quasi 50 milioni di euro.

Spostandoci nel Frusinate, terza provincia laziale per beni confiscati con 67 immobili e aziende, sono le note località di Anagni e Fiuggi (la città delle terme, eletta dal boss Cutolo a rifugio per la sua latitanza), ad essere più colpite dalle confische. La provincia è terra soprattutto di riciclaggio dei proventi illeciti in mano alla camorra, derivanti in gran parte dal traffico illegale dei rifiuti. Resta Viterbo, con soli 6 beni confiscati, la Provincia meno interessata dalle confische. Questo dato, purtroppo, non è garanzia di “immunità” dalle infiltrazioni mafiose: secondo le indagini il viterbese è infatti frontiera delle ecomafie.

 

Ancora poche le destinazioni

Nel Lazio sono 264 i beni destinati e consegnati agli enti, solo il 41% del totale, a fronte di una media nazionale del 54%. Beni, tuttavia, spesso lasciati all’incuria e all’abbandono, o gestiti con finalità che appaiono lontane dal riuso a fini sociali: la destinazione, infatti, non sempre è sinonimo di riutilizzo.Una problematica che la stessa Agenzia conosce direttamente: solo recentemente, dopo anni e molte fatiche, la sezione romana dell’Agenzia è stata trasferita nella sua attuale sede, in un grande appartamento confiscato in via definitiva. L’immobile era stato occupato abusivamente da un avvocato e da un centro benessere, costringendo l’Agenzia a versare per anni quasi 295.000 euro l’anno d’affitto per la vecchia sede, di proprietà della Provincia. Una beffa tutta italiana.

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‘Ndrangheta: la quinta azienda

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Il preciso articolo di Claudio Forleo:

40 arresti tra Lombardia, Veneto e Sicilia, un filmato del ROS sulla cerimonia di affiliazione alla Santa, la zona d’elite dove la ‘ndrangheta incontra i poteri forti che l’hanno aiutata a diventare grande nell’ultimo mezzo secolo, abbandonando per sempre l’etichetta di ‘mafia stracciona’. L’interesse verso la criminalità organizzata, soprattutto calabrese, procede per ondate.

Per giro d’affari oggi la ‘ndrangheta sarebbe la quinta azienda italiana. La scorsa primavera l’istituto Demoskopika stimava un fatturato pari a 53 miliardi di euro (66 miliardi di dollari). Nel nostro paese ci sono solo quattro società che possono reggere il confronto: ENI, ENEL, Exor e Generali. La ‘Ndrangheta SPA non conosce crisi se è vero che nel 2007, prima dei subprime, del tracollo di Lehmann Brothers e di tutti gli effetti che si sono rovesciati sull’economia reale, il suo giro d’affari era stimato in 44 miliardi di euro. Le ‘ndrine durante la crisi hanno aumento il fatturato del 20%. Quale altra ‘società’ operante in Italia può lontanamente avvicinarsi a questi risultati?

Eppure, solo fino ad una manciata di anni fa, esistevano ministri e prefetti che negavano la penetrazione al Nord delle ‘ndrine. Ignoranza o malafede? Qualunque sia la risposta uno dei risultati è il gap di conoscenza dell’opinione pubblica su come è avvenuta questa scalata. Vent’anni fa il pericolo si chiamava Cosa nostra, dieci anni fa libri di successo hanno fatto riscoprire all’opinione pubblica la potenza e la ferocia della Camorra. La ‘ndrangheta invece non ha conosciuto la stessa pubblicità. Un silenzio che le ha permesso prima di prosperare con il traffico degli stupefacenti, poi di infiltrarsi nell’economia reale avvelenandone i pozzi.

La quinta azienda italiana conta almeno 60mila affiliati, ma sbaglieremmo se limitassimo il numero degli ‘iscritti’. Il bacino delle connivenze è molto più esteso, nel mondo della politica, dell’imprenditoria e della finanza. E travalica i confini nazionali ed europei. Quando nel 2007 la faida di San Luca produsse la strage di Duisburg, i tedeschi dovettero rendersi conto di essere stati colonizzati. La ‘ndrangheta aveva iniziato ad acquistare immobili e attività commerciali in Germania un minuto dopo la caduta del Muro di Berlino. L’intelligence tedesca sapeva che le ‘ndrine operavano alla Borsa di Francoforte ed erano entrate in possesso di azioni Gazprom, il colosso russo del gas che verrà poi presieduto dall’ex cancelliere Schroeder.

In Italia ancora si vedono volti smarriti nell’apprendere che non esiste regione dove la ‘ndrangheta non ha messo radici. Non oggi, non ieri, ma 30-40 anni fa. Lombardia, Piemonte, Liguria, Veneto, Emilia, Toscana… i clan calabresi operano dappertutto, da decenni. 

Prendiamo come esempio la Liguria, oggi al centro di polemiche per il dissesto idrogeologico. “In Liguria la ‘ndrangheta è arrivata negli anni Sessanta. C’era tutto: il porto, utile accesso per le rotte della droga, il casinò, ma soprattutto la Francia, con le sue coste a due passi da Ventimiglia” scrivono Antonio Nicaso e Nicola Gratteri nel libro Fratelli di sangue. Ventimiglia, porta verso la Francia e la Costa Azzurra, dove vengono arrestati i boss Paolo De Stefano, Domenico Libri e Luigi Facchineri. E’ anche se non soprattutto in Liguria che la ‘ndrangheta ricicla i suoi introiti illegali, nella terra in cui (dati Istat) dal 1990 al 2005 il territorio non cementificato è passato da 249mila a 135.570 ettari. Ventimiglia e Bordighera sono due amministrazioni comunali sciolte per infiltrazioni mafiose nel 2012. Non le prime al Nord, precedute da Bardonecchia (1995) in Piemonte. Qui, a dominare la scena fin dagli anni Ottanta, fu Rocco Piscioneri, sostituito poi dai clan Ursino – Macrì – Belfiore, originari di Gioiosa Ionica. Nel 1993 Domenico Belfiore venne condannato con sentenza definitiva per l’assassinio del Procuratore di Torino Bruno Caccia, freddato il 26 giugno 1983. E potremmo andare avanti, regione per regione.

Come si diceva l’Italia si è presto trasfromata in un giardino troppo stretto per le ambizioni delle ‘ndrine. Sono diventati padroni del traffico di cocaina in Europa, grazie al rapporto privilegiato con i narcos colombiani (anche perché, a differenza di Cosa nostra, la ‘ndrangheta è stata solo sfiorata dal pentitismo). Secondo gli esperti la ‘ndrangheta è l’unica mafia davvero globalizzata, operante in tutti i Continenti, da decenni (leggi il nostro articolo dello scorso 12 febbraio). In Spagna, ventre molle dell’Europa per l’accesso degli stupefacenti provenienti dal Sudamerica, nell’Europa dell’Est, dove le ‘ndrine hanno investito una volta caduta la cortina di ferro, in Olanda, nel Regno Unito, in Svizzera e Austria.

In Libano le ‘ndrine di Siderno commerciavano eroina già negli anni Ottanta, per lo stesso motivo in Turchia le cosche di Platì si interfacciavano con i Lupi Grigi, dove militava Ali Agca, protagonista dell’attentato a Giovanni Paolo II. In Africa i regimi corrotti in Ghana, Liberia e Guinea-Bissau sono stati luogo di transito ideali per immense partite di cocaina. In Canada Rocco Perri fece affari d’oro negli anni del proibizionismo con Al Capone e Joseph Kennedy (sì, il padre di JFK), In Australia le ‘ndrine fanno sparire per sempre l’attivista Donald Mackay, che osò sfidare i capibastone della zona (Trimboli, Scarfò, Sergi).

Nella Serpa: la boss di Paola

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Per Nella Serpa, 59 anni, ritenuta a capo dell’omonima cosca di ‘ndrangheta operante a Paola è stato applicato il regime detentivo speciale del 41 bis. Il provvedimento rientra nell’ambito dell’attività di contrasto che la Procura distrettuale antimafia di Catanzaro ed i carabinieri stanno conducendo per limitare l’autonomia decisionale e sottrarre alla criminalità i beni accumulati illecitamente attraverso l’applicazione di provvedimenti cautelari personali e patrimoniali più severi. Nella Serpa, già detenuta nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), è stata trasferita nella casa circondariale dell’Aquila.

Gli imprenditori codardi del nord. E la mafia ringrazia.

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Ancora una volta tra le carte di un’operazione antimafia esce un quadro misero dell’imprenditoria lombarda. Ancora una volta la maggior parte dei giornalisti si sgola per raccontarci i riti mafiosi, i riti di iniziazione (e ha ragione Nando Dalla Chiesa a scrivere che ancora una volta la favoletta de “i colletti bianchi” viene smentita) e nessuna punta il dito contro una classe imprenditoriale che ritiene l’etica un ostacolo alla produttività.

Per fortuna Gabriella Colarusso ne scrive:

Fare affari con i clan: un gioco pericoloso.
Una falsa credenza, un idolum fori, per dirla col filosofo Francesco Bacone.
Questa è, secondo i magistrati dell’antimafia milanese – che con l’indagine Insubria hanno portato all’arresto di 44 presunti affiliati alla ‘ndrangheta tra Lombardia, Calabria e Sicilia -, la diffusa convinzione che, nel rapporto tra criminalità organizzata e imprenditoria, quest’ultima sia sempre e solo la parte lesa, l’anello debole della catena, la vittima.
Nella maggior parte dei casi, certo, lo squilibrio di forze tra picciotti con la pistola facile, adusi a minacce, estorsioni, intimidazioni, e imprenditori magari finiti nel giogo del racket per ingenuità o bisogno è enorme. E a favore dei primi.
QUELL’IMPRENDITORIA CHE FA AFFARI CON I CLAN. Ma accade e accade spesso che siano gli stessi commercianti, industriali o professionisti del terziario a cercare la Santa alleanza, convinti di poterne trarre benefici di mercato. Per poi scoprire magari di essersi resi schiavi di un meccanismo che non possono controllare e dal quale è difficile uscire.
Le inchieste condotte in questi anni in Lombardia, ossia «Infinito, Blue Cli, Valle-Lampada, Caposaldo», come annota il gip Simone Luerti negli atti dell’indagine Insubria, 
dimostrano «che l’imprenditoria non si limita a subire la ‘ndrangheta, ma fa affari con la stessa, spesso prendendo l’iniziativa per il contatto con la criminalità organizzata e ricavandone (momentaneamente) dei vantaggi».
Storie che si nascondono all’ombra delle periferie, dove l’occhio dei media spesso non arriva e fare affari per la ‘ndrangheta è più facile e sicuro.

Gli ‘ndranghetisti che riscuotevano crediti per conto degli imprenditori

Insubria illumina un pezzo di questa realtà. C’è la storia, per esempio, dell’imprenditore nato a Carate Brianza e residente in Svizzera, ora agli arresti, G.B.

Sarebbe stato lui stesso, secondo gli investigatori, a cercare le cosche e a incaricare il presunto ‘ndranghetista Michelangelo Chindamo di «riscuotere un preteso credito nei confronti» di un avvocato e di un commercialista svizzeri. E Chindamo, «avvalendosi di altre persone», non avrebbe esitato «a progettare e compiere numerosi atti di intimidazione» per raggiungere lo scopo, scrive il gip.
IL BARISTA CHE CHIAMA I CLAN PER DIFENDERSI DAGLI IMMIGRATI. Sempre a Chindamo si sarebbero rivolti poi un impresario 55enne di Como, operativo nel settore dei carburanti, per riscuotere un credito di 300 mila euro vantato nei confronti di un’altra azienda con sede a Lomazzo, dichiarata fallita nel 2012; l’amministratore delegato di una società di elettronica per recuperare un presunto credito di circa 1 milione di euro dai suoi clienti; il socio di un’azienda idraulica, anch’essa, presunta, creditrice. E persino il proprietario di un bar tabacchi, che avrebbe chiesto l’intervento degli ‘ndranghetisti «in quanto a suo dire minacciato da persone di origine extracomunitaria che si sono presentate presso il suo esercizio».

Anche al Nord si preferisce l’omertà: troppa sfiducia nelle istituzioni

Un «imponente numero di fatti intimidatori», scrivono gli inquirenti, quasi 500 dal 2008 a oggi, solo considerando i Comuni interessati dall’indagine, soltanto in minima parte vengono denunciati a causa «dell’omertà delle vittime (che sempre hanno dichiarato di non avere sospetti su nessuno e di non aver mai ricevuto pressioni o minacce di alcun tipo)».

L’altro aspetto del rapporto imprenditoria-criminalità messo in luce dall’inchiesta, infatti, è proprio questo: per ogni industriale, professionista o colletto bianco colluso, che trae vantaggio dalla relazione col potere mafioso, ci sono decine di altri imprenditori, commercianti o professionisti che si trovano poi costretti a subire violenza, ricatti e intimidazioni. E che per paura spesso non denunciano.
LA SFIDUCIA NELLO STATO. «Significativo il fatto che la totalità degli episodi intimidatori», scrive il gip nell’ordinanza, «(sia quelli dove si è risaliti a precise responsabilità, sia quelli dove gli autori sono rimasti ignoti) sono caratterizzati da una circostanza comune: le vittime, in sede di denuncia, riferiscono quasi sempre di non aver mai subito minacce».
Il che, spiega il gip, non può essere statisticamente sempre vero.
«Se le parti lese, a dispetto della gravità dei fatti subiti, non denunciano gli autori, ciò è dovuto a paura. I commercianti in questi casi preferiscono assicurarsi, sopportare i costi dell’illegalità subita, piuttosto che mettersi dalla parte dello Stato con una denuncia, che può essere foriera di guai peggiori».
Paura, sfiducia nelle istituzioni. E dall’altro lato convenienza quando non aperta mafiosità.

“Operazione Insubria”: un’intervista

A Venezia la Provincia assume il boss

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Avrebbe favorito un noto boss della malavita locale facendolo assumere, all’interno di un programma di recupero, come guardiaparchi aggirando la graduatoria predisposta dai servizi sociali: con questa accusa Francesca Zaccariotto – volto noto della Lega nord, presidente della Provincia di Venezia, sindaco per più di dieci anni di San Donà di Piave – è stato richiesto il rinvio a giudizio dai pm veneziani Carlotta Franceschetti e Walter Ignazitto.

La vicenda nasce un anno fa da una inchiesta per un traffico di droga, compiuta dai carabinieri di Venezia che aveva arrestato dieci persone accusate di acquistare sostanze stupefacenti a Milano, da una famiglia di ‘ndrangheta, per poi smerciarle nel nordest. Tra queste anche Luciano Maritan, detto Cianetto, figura storica della malavita del Veneto orientale, nipote di Silvano Maritan, “colonnello” dell’ex boss della Mala del Brenta Felice Maniero.

Nel corso dell’inchiesta il collaboratore di giustizia Luca Fregonese aveva riferito ai magistrati la confidenza che gli avrebbe fatto Maritan e cioè che la Zaccariotto, che conoscerebbe da anni, lo avrebbe aiutato assumendolo come guardia parchi. Nei guai, oltre la Zaccariotto, è finita anche la dirigente della Provincia Eugenia Candosin che sarebbe stata indotta dall’allora sindaco ad affidare quel lavoro di guardiaparchi al boss della malavita locale.

Le imputazioni sono di concorso in abuso d’ufficio per la Zaccariotto, mentre per la dirigente comunale si aggiunge quella di falso ideologico. La difesa ha negato l’accusa, sostenendo che la lista di nomi non fosse una graduatoria ma un semplice elenco di “candidabili” alla posizione. Ad aggravare la posizione della politica leghista ci sarebbe anche una conversazione telefonica intercettata dagli inquirenti, in cui la dirigente comunale si lamenta con un collega di essere stata messa nei guai dal sindaco. Il giudice Massimo Vicinanza ha rinviato al 4 dicembre vista la richiesta per via della richiesta di uno dei difensori di acquisire ulteriore documentazione.

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Ancora ancora ancora mafia dentro EXPO

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Lo avevamo riportato qualche tempo fa in questa inchiesta: il rischio che le imprese in odor di mafia escano dalla porta di Expo per rientrarvi dalla finestra è altissimo, probabilmente è già la normalità. Sei mesi dopo la conferma: a margine della seduta del 24 novembre della Commissione Parlamentare Antimafia in trasferta alla prefettura di Milano si apprende che, lo riporta Il Giorno, tre imprese che erano riuscite a vincere i lavori per spazi espositivi esteri sono già state allontanate dai cantieri perché in odore di mafia. E in alcuni casi si tratta di imprese che avevano già tentato l’approccio con Expo: «Cacciate dalla porta, hanno cercato di rientrare dalla finestra» ha detto il presidente della commissione Rosi Bindi. Poteri paranormali? No, anzi, come abbiamo riconosciuto noi una possibilità di «uscire dalla porta e rientrare dalla finestra», così l’hanno riconosciuta pure le imprese.

Gli espositori esteri infatti non erano tenuti alla firma obbligatoria dei protocolli antimafia, così solo in 7 su 53 hanno aderito in questi mesi ai protocolli antimafia. All’epoca del nostro primo pezzo sul tema era addirittura la sola Germania ad aver firmato. Ieri, solo ieri, «Su decisione del prefetto Francesco Paolo Tronca e del commissario unico Giuseppe Sala – spiega la Bindi, ripresa di nuovo da Il Giorno – è stato chiesto ai Paesi ospiti di presentare la lista delle imprese che si sono aggiudicate i lavori per la realizzazione dei loro padiglioni».

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Questa volta però nessuna facoltà, ma un obbligo. Lo stesso prefetto di Milano Francesco Paolo Tronca ha informato la commissione antimafia che le interdittive sono ormai più di 60. Sono 63. «Le ultime 7 – ha spiegato la presidente della commissione parlamentare antimafia – sono state firmate l’altroieri e hanno colpito, di nuovo, aziende che si erano aggiudicate appalti per opere connesse o per i lavori di allestimento del sito».

Si è poi parlato di “opera di prevenzione antimafia” per evitare di perdere tempo e sperperare denaro. Inutile dire che a nemmeno sei mesi dall’inaugurazione di Expo se ancora si verificano eventi come questi, per quanto efficaci possano essere le interdittive o meno, sembra essere sempre tardi per accennare alla prevenzione.

(fonte)


La verità negata su Attilio Manca

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MancaAttilio2aConsidero il caso di Attilio Manca uno scempio istituzionale nei confronti della sua famiglia, della verità e della giustizia. Per questo credo che debba impegnarmi anch’io al limite delle mie forze. Intanto vale la pena leggere le parole della madre, Angela:

“Credo che sull’omicidio di Attilio Manca non si voglia fare luce, anzi, stanno cercando di ostacolare ogni nostra iniziativa finalizzata all’ottenimento della verità, sia sulla morte di mio figlio, sia sulla latitanza ‘dorata’ di Bernardo Provenzano, coperta per oltre 40 anni da pezzi importanti dello Stato. Si sono verificati troppi episodi strani, anche recentemente, per poter pensare a delle semplici coincidenze: dalla strano ‘suicidio’ per ‘impiccagione’ in carcere di Francesco Pastoia, braccio destro di Provenzano, agli strani lividi con i quali lo stesso Provenzano è stato trovato in carcere”.

Angela Manca non ha peli sulla lingua. Pesa le parole, ma mette in fila i fatti che riguardano la morte del figlio Attilio Manca, brillantissimo urologo di 24 anni, originario di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina),trovato cadavere la mattina del 12 febbraio 2004 nel suo appartamento di Viterbo, città dove era in servizio da un paio di anni, Per i magistrati laziali, il decesso del medico è da attribuire a un mix micidiale di eroina, alcol e tranquillanti trovati nell’organismo della vittima; per i familiari, invece, all’operazione di cancro alla prostata subita dal boss Bernardo Provenzano nel 2003 a Marsiglia, alla quale Attilio avrebbe preso parte. La Procura di Viterbo è certa dell’”inoculazione volontaria”, in virtù di due buchi trovati nel braccio sinistro dell’urologo (quello sbagliato: Attilio era mancino puro) e di due siringhe rinvenute a pochi metri dal cadavere. La famiglia accusa i magistrati laziali di aver costruito un castello di bugie, a cominciare dal mancato rilievo delle impronte digitali sulle siringhe, effettuato solo otto anni dopo, che tra l’altro non ha dato alcun esito, per passare alle foto del cadavere scattate pochi minuti dopo dalla Polizia, che non sarebbero state tenute in considerazione: dalle immagini si vede il volto di Attilio Manca sporco di sangue, il setto nasale deviato, le labbra gonfie, i testicoli enormi, con lo scroto striato da una evidente ecchimosi, segnali questi, più compatibili con una colluttazione che con una morte da overdose. Ma in verità è l’intera l’impalcatura investigativa a non convincere.

L’on. Sonia Alfano, ex presidente della Commissione antimafia europea, nel volume “Un ‘suicidio’ di mafia”, Castelvecchi editore, dice: “Quando andai a visitare Provenzano in carcere, lo trovai pieno di botte. Gli chiesi: ‘Signor Provenzano, si rende conto che stanno facendo pagare solo lei, mentre gli altri sono fuori dal carcere?’. E lui: ‘Non possiamo parlare fuori?’. Aveva paura. Aveva punti di sutura al sopracciglio, un livido alla guancia e un livido alla mandibola”.

Signora Manca, perché collega il “suicidio” di Pastoia con l’episodio denunciato dall’on. Alfano? Che c’entrano i due episodi con la morte di suo figlio?

“Saranno anche delle coincidenze, ma Pastoia (intercettato dalle ambientali), aveva parlato di un ‘dottore’ che, oltre ad essere presente in sala operatoria a Marsiglia durante l’intervento di cancro alla prostata alla quale si era sottoposto il boss nell’autunno del 2003, avrebbe curato Provenzano prima e dopo l’intervento. Pochi giorni dopo Pastoia morì e la sua tomba venne violentemente profanata nel cimitero di Belmonte Mezzagno. Vogliamo sapere chi è questo ‘dottore’. Perché una cosa è chiara: un urologo deve aver diagnosticato il tumore a Provenzano, e deve averlo curato dopo l’operazione”.

Andiamo ai lividi di Provenzano.

“Sono comparsi dopo che Sonia Alfano aveva chiesto testualmente: ‘Signor Provenzano, ricorda il giovane medico Attilio Manca?’. Il boss non disse di non conoscerlo. Rispose: ‘Amo a mettiri mmenzu autri cristiani?’, dobbiamo mettere in mezzo altre persone?, riferendosi probabilmente a quella rete di personaggi dello Stato che lo ha protetto per tanti decenni. Se è una coincidenza, anche questa è molto singolare”.

Come giudica la clamorosa ritrattazione del boss dei Casalesi, Giuseppe Setola, che recentemente si è pentito di essersi pentito proprio nel momento in cui ha svelato ai magistrati palermitani, Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia (che si occupano della Trattativa Stato-mafia) alcuni retroscena sulla morte di Attilio Manca?

“Un altro episodio singolare. Da maggio Setola aveva detto chiaramente quello che sosteniamo noi da dieci anni: ovvero che la morte di Attilio non è dovuta ad overdose di eroina, ma sia da collegare all’operazione di Provenzano. Attenzione: Setola non fa marcia indietro mentre sta raccontando questi retroscena. Decide di non parlare più quando le sue dichiarazioni segrete vengono rese pubbliche, Infatti non smentisce quello che ha detto, dice di temere per i suoi familiari. Evidentemente non si è sentito protetto dallo Stato”.

Eppure il capo della Direzione distrettuale antimafia di Roma, Giuseppe Pignatone, dopo le sue dichiarazioni, ha aperto un fascicolo di indagine “modello 45” sulla morte di Attilio Manca.

“Non sono un’esperta di diritto, ma so che il “modello 45” è un procedimento blando, che temo non porterà a niente. Del resto, il sostituto procuratore Michele Prestipino, da sempre in sintonia con Pignatone, ha detto che la morte di Attilio non c’entra niente con l’operazione di Provenzano. Perché Prestipino è così sicuro se non ha mai indagato su Attilio? Prestipino ha sì svolto una inchiesta, scaturita successivamente in un processo, sulla presenza di Provenzano a Marsiglia, ma non sull’eventuale intervento di Attilio nel contesto dell’operazione del boss corleonese”.

Recentemente a Viterbo la famiglia Manca non è stata ammessa come parte civile al processo che si sta celebrando contro Monica Mileti, colei che, secondo i magistrati laziali, sarebbe stata la spacciatrice che avrebbe ceduto l’eroina “fatale” a suo figlio. Il giudice monocratico ha giustificato la decisione dicendo che “la famiglia Manca non avrebbe ricevuto alcun danno dalla morte del congiunto”.

“Beh, anche in questo caso tutto sembra fin troppo chiaro”.

Caso Manca: oltre al danno la calunnia

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ingroia-manca-angela-conf-stampadi Lorenzo Baldo – 25 novembre 2014
La Procura di Viterbo iscrive nel registro degli indagati l’ex pm per alcune sue dichiarazioni rilasciate durante l’udienza preliminare al processo per la morte del giovane urologo di Barcellona P.G.
Palermo. “Una mostruosità giuridica”. Non usa mezzi termini all’apertura della conferenza stampa l’avvocato della famiglia Manca, Antonio Ingroia (che lavora in team insieme al collega Fabio Repici), riferendosi all’avviso di garanzia inviatogli dalla Procura viterbese. Nel documento il pm Renzo Petroselli lo accusa di aver incolpato ingiustamente il dirigente della Squadra Mobile di Viterbo, Salvatore Gava, di falso ideologico per la sua informativa sulle indagini relative alla morte di Attilio Manca, il giovane urologo barcellonese trovato cadavere nella sua casa di Viterbo nella notte tra l’11 e il 12 febbraio 2004. Petroselli sottolinea che le accuse di “depistaggio” attraverso la costruzione di “prove false” sono state pronunciate durante l’udienza preliminare del 3 febbraio scorso relativa al procedimento penale per la morte del giovane medico che vede come unica imputata la romana Monica Mileti, accusata di aver ceduto la dose fatale di eroina che ha causato la morte del giovane urologo.

L’obbrobrio giuridico
Ingroia esordisce sottolineando l’evidente anomalia del suo avviso di garanzia: è la prima volta che un avvocato viene incriminato per calunnia per quello che ha dichiarato nel corso dell’udienza. L’ex pm ribadisce che bisogna essere “analfabeti del diritto” per non conoscere che l’art. 590 del codice penale prevede una specifica causa di non punibilità per le offese contenute negli scritti e nei discorsi che le parti, pm e difensori, rendono davanti all’Autorità giudiziaria. In questo caso è tutto molto più complesso e occorre mettere insieme tutti i pezzi.

Antefatto
Lo scorso 9 gennaio il giornalista di Chi l’ha visto, Paolo Fattori, confronta il verbale della squadra mobile di Viterbo, guidata all’epoca da Salvatore Gava, con i registri dell’ospedale “Belcolle”, dove Attilio Manca lavorava. Da quel confronto emerge una schiacciante verità: Attilio Manca non era in ospedale nei giorni del ricovero di Bernardo Provenzano a Marsiglia. Un fatto incontrovertibile che si scontrava – e si scontra – con la relazione firmata dallo stesso Gava nella quale veniva scritto invece che l’urologo siciliano era di turno all’ospedale nei giorni in cui il boss si trovava in Francia per sottoposti ad un’operazione alla prostata. I giorni in cui è segnata la mancata presenza del giovane urologo sono quelli tra il 20 e il 23 luglio 2003, poi dal 25 al 31 luglio 2003 e infine nei giorni del 25, 26 e 31 ottobre 2003 (il 30 se ne era andato via intorno alle 15:30, prima quindi che terminasse il suo turno). Il dott. Manca era quindi rientrato in servizio la mattina del 1° novembre. E proprio i giorni in cui il giovane urologo era assente dal lavoro coincidevano con il periodo nel quale Provenzano (tra esami preparatori, intervento alla prostata, e successivi esami di controllo) si trovava in Francia.

I protagonisti
Salvatore Gava è lo stesso pubblico ufficiale già condannato a 3 anni, in via definitiva, per un falso verbale all’epoca delle violenze alla scuola Diaz. La sua informativa sul caso Manca è stata quindi smentita dal confronto con i registri dell’ospedale dove lavorava Attilio Manca. Perché mai in quella relazione si leggeva che la presenza di Attilio Manca sul luogo di lavoro era stata appresa “in via informale” quando “formalmente” i fogli dell’ospedale dicevano tutto il contrario? Dove sono quindi i presupposti di calunnia da parte di Antonio Ingroia? Il pm Petroselli è lo stesso magistrato che, dopo svariate richieste di archiviazione sul caso specifico, ha chiesto e ottenuto l’esclusione della famiglia Manca, quale parte civile, dal processo che si sta celebrando a Viterbo nei confronti di Monica Mileti. Per motivare la sua decisione Petroselli ha affermato che i genitori e il fratello di Attilio non sono stati danneggiati dalla morte del loro familiare. Probabilmente basterebbero queste sue poche parole per qualificare la caratura morale del magistrato.

Strane manovre
Quello che vuole essere fatto passare come un suicidio per droga nasconde in realtà un bieco tentativo di  occultare qualcosa di molto più terribile. Resta da cristallizzare il ruolo di Cosa Nostra all’interno di quello che a tutti gli effetti appare come un omicidio. Così come il ruolo di determinati apparati investigativi. Durante la conferenza stampa lo stesso Ingroia annuncia di voler denunciare il pm Petroselli al Csm o anche per via penale. Per l’ex pm è del tutto evidente che non si voglia arrivare alla verità sul caso di Attilio Manca. E questo perché secondo la ricostruzione del legale della famiglia Manca quella strana morte è collegata alla trattativa Stato-mafia in quanto la copertura della latitanza di Provenzano – garante di quel patto –  rientrava in determinati accordi. Attilio Manca sarebbe stato coinvolto inconsapevolmente nella cura dell’anziano boss e poi, una volta resosi conto della sua reale identità, sarebbe stato eliminato attraverso la più classica delle manovre firmata dalla mafia in sinergia con apparati “deviati”. Ingroia traccia quindi un filo che unisce i misteri di questo omicidio con l’isolamento del pm Nino Di Matteo. “Non è un caso – ha ribadito l’ex pm – quello che si sta verificando per la nomina del nuovo procuratore di Palermo”. Per Ingroia il rischio dell’arrivo di un procuratore “normalizzatore” ostile al processo sulla trattativa che isoli ulteriormente Di Matteo è tutt’altro che peregrino. L’ex magistrato si appella quindi alla Presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi, che poche settimane fa ha definito il caso Manca “un omicidio di mafia”, affinchè mantenga la promessa di istituire al più presto un’apposita commissione a tema. “Chiedo di essere sentito dal procuratore facente funzione Leonardo Agueci – conclude l’ex magistrato – in quanto ritengo che ci siano le condizioni per aprire un fascicolo a Palermo sulla morte di Attilio Manca in quanto questo fatto è collegato alla latitanza di Provenzano e alle indagini sulla trattativa”.

Il dolore di una madre
Non ha più lacrime, Angelina Manca, prende la parola dopo l’ex pm, mostra le foto del volto tumefatto del figlio e ripercorre i momenti salienti di questi 10 anni nei quali lei e la sua famiglia hanno gridato per avere verità e giustizia. Racconta dei tentativi di indurli al silenzio attraverso minacce sibilline o del tutto esplicite. In prima fila suo marito, Gino, la osserva rivivendo ogni istante. La sua richiesta di attenzione rivolta ai media è l’ultimo appello di chi continua a scontrarsi con una macchina della giustizia disposta a risolvere il giallo della morte del loro figlio incriminando unicamente un avvocato e che, senza alcun pudore, evita accuratamente di arrivare alla verità.

(fonte)

Antimafiosi solo per gli abbonati SKY

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imageCattleya, la società di produzione della serie TV “Gomorra”, ha deciso di non costituirsi parte civile nel processo che deve fare chiarezza sull’estorsione subita durante le riprese e così è riuscita a mandare in onda la propria puntata più brutta: come i maghi che per errore mostrano il trucco per uno svolazzo del telo.

La notizia è qui:

La procura di Napoli ha chiesto oggi al giudice del tribunale la condanna a complessivi 27 anni per i tre imputati accusati di estorsione nei confronti della società cinematografica Cattleya per la produzione televisiva di “ Gomorra la serie ”. L’inchiesta ruota attorno all’imposizione del pagamento di somme di denaro in favore di un clan camorristico di Torre Annunziata. E a versarlo sarebbero stati gli uomini della casa di produzione impegnata nella realizzazione di episodi per la tv che ha avuto grande successo che si ispirano a un marchio, quello di Gomorra, che in Italia e soprattutto nelle regioni con maggiore presenza mafiosa è diventato un importantissimo riferimento per quanti si impegnano a lottare le mafia, nelle istituzioni e nella società civile, e per quanti nutrono la speranza di un paese senza criminalità.

A sposare questi elementi è stata proprio Cattleya, che però, dall’inchiesta dei carabinieri, coordinata dalla procura distrettuale antimafia di Napoli, ne esce come una vittima costretta a pagare i boss pur di girare senza aver problemi in una villa del clan. A questo punto, seguendo le linee di coerenza che il marchio Gomorra impone, ci si sarebbe aspettati che nell’udienza di oggi davanti al giudice, in cui si apriva il giudizio abbreviato per gli imputati, la casa di produzione Cattleya chiedesse di costituirsi parte civile. Un segnale importante per un territorio ostaggio dei clan. Ma nessuno della società che ha prodotto Gomorra lo ha fatto. Diversamente dalla Federazione nazionale antiracket che ha chiesto e ottenuto di costituirsi parte civile contro questi tre imputati: il boss di Torre Annunziata Francesco Gallo, il padre, Raffaele, e la madre, Annunziata De Simone.

Luce su Quarto Oggiaro: si pente Alex Crisafulli

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Crisafulli-Alessandro-20.09.64-675Per tutti gli anni Ottanta e buona parte dei Novanta è stato il re criminale di Quarto Oggiaro. Assieme al fratello ha gestito lo spaccio sulla piazza di Milano, ha commesso omicidi e si è seduto ai tavoli riservati della mafia spa sotto al Duomo. Adesso, dopo anni di carcere, questo romanzo nero è disposto a metterlo nero su bianco davanti ai magistrati. Sì perché Alessandro Crisafulli ha scelto la via della collaborazione. E lo ha fatto davanti al pm milanese Marcello Musso che il 23 agosto 2014 lo ha interrogato perché coinvolto in un’inchiesta di droga. Si tratta dell’indagine Pavona 4 che a luglio mette in scacco diversi gruppi di narcos legati al crimine organizzato.

“Da sei anni a questa parte io con le istituzioni mi sento alleato. Mi sono arreso”

Prima di quel verbale che potrebbe risultare decisivo per riscrivere trent’anni di storia criminale milanese, Crisafulli ha inviato una lettera dal carcere di Opera. Lettera d’intenti che diventa tale davanti al pubblico ministero che lo accusa, non solo di aver fatto parte di un’associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga, ma gli imputa anche la decisione, attraverso ambasciate portate fuori dal carcere dalla moglie, di aver investito il clan Tatone di gestire lo spaccio di droga a Quarto Oggiaro per conto della famiglia Crisafulli. Lui, Alex, nega. Ammette l’esistenza dell’associazione, ma nega di averne fatto parte e soprattutto nega le responsabilità della ex moglie. Poi dice: “Le mie colpe le evidenzieremo strada facendo…”. Quindi aggiunge: “Da sei anni a questa parte io con le istituzioni mi sento alleato (…) Le ho detto che mi sono arreso” e “cazzo, sono venuto qua come collaboratore io (…) perché la galera non è più il mio posto. Non posso stare ancora vent’anni in galera (…) Se Lei mi vedesse, io sono sempre con le cuffie o con il libro. Non ho più un rapporto e lo possono testimoniare tutti gli agenti. E difatti io ogni giorno combatto con un agente perché mi dice: Ma Crisafulli, ma che cazzo ci fai tu qua? Cosa ti può essere successo?Si vede che era il mio Karma”.

Il pm cita le Confessioni di Sant’Agostino, il boss risponde con la filosofia di Gadamer
Difficile essere più chiari di così. Insomma, Crisafulli, fratello di Biagio soprannominato Dentino, vuole parlare perché “per molto tempo ho vissuto nella animalità”. La dichiarazione d’intenti c’è. Il pm, però, tira dritto sui fatti contestati nell’ordinanza. Ed è giusto che sia così. Musso non è arrivato ieri. Di pentiti ne ha sentiti a decine. Padrini di Cosa nostra anche, negli anni in cui ha ricostruito diversi omicidi di mafia a Milano. Non si fida. Nelle 187 pagine il boss e il pm discutono. Dei fatti, prima di tutto. Che Crisafulli nega. Ma anche di filosofia. Nel momento in cui il pm cita addirittura “Le mie confessioni” di Sant’Agostino. “Ci ha insegnato che si ha un’intuizione, che la conoscenza è basata su un’intuizione iniziale che è credere o non credere. Lui parlava di credere in Dio, eccetera. Ecco, credere che quelle emergenze siano buone, ma questa è un’intuizione iniziale, da cui parte la conoscenza. Quella è un’intuizione iniziale, poi bisogna vedere dove ti porta la conoscenza, e di qui l’intercettazione ambientale”. Si parla di filosofia ma si resta agganciati all’indagine. Crisafulli non resta spiazzato e risponde con sorprendente competenza citando Hans-Georg Gadamer, filosofo tedesco e padre dell’ermeneutica. Dice: “C’era anche un certo Gadamer che parlava della precomprensione, che è un’altra cosa”.
Spadino muore, perché una sera si trova a mangiare con il fratello di Foschini tra un pippotto e l’altro

La digressione colta dura poco. Si torna al crimine. “Dottore sono qua. Mi sono messo in gioco. Mi sono dato tutto. Le ho raccontato altre cose”. Tra le varie, il boss pentito, ricostruisce anche l’omicidio di Vincenzo Morelli detto Spadino scomparso la sera del 26 aprile 1991 e ritrovato cadavere solo quindici anni dopo nei boschi del parco delle Groane a sud di Milano. Per quel fatto ci sono già state diverse condanne. Crisafulli prima coinvolto sarà successivamente scagionato. Davanti a Musso racconta come maturò quell’omicidio: “Io questo Morelli lo conoscevo sin da ragazzino (…) spacciava per noi (…) però siccome era troppo montato (…) l’ho sempre mandato via da Quart Oggiaro. Si è unito alla batteria di Vittorio Foschini (oggi collaboratore di giustizia, ndr), Pellegrino, non so se se li ricorda o li ha sentiti nominare, e si è unito a questi e gli faceva l’autista e queste cazzate qua. Solo che loro lo odiavano, però non avevano il coraggio di ucciderlo, perché erano una banda di scappati di casa. Millantavano cose che, specialmente Foschini, non avevano mai fatto. Morale Spadino muore, perché una sera si trova a mangiare con il fratello di Foschini (…) e tra un pippotto di cocaina e l’altro gli dice: Mi sono scopato la sorella di Pellegrino. Siccome il più montato dei Pellegrino era Dino è andato fuori di testa e il giorno dopo l’hanno ucciso. Ed è lì che è morto Spadino, perché Spadino ha fatto questa confidenza (…). Lo hanno portato in casa di Nicolino, altro fratello dei Pellegrino che abitava a Baranzate, lui aveva sposato una zingara, e l’hanno ucciso lì”. Queste una delle tante verità (ancora da accertare) di Alex Crisafulli, ras della droga, boss rispettato, oggi pentito e disposto a parlare con chi in Procura a Milano vorrà ascoltarlo. “Perché – chiude l’ex re criminale –  è vero che io ho ucciso, e non voglio entrare nel merito dei miei motivi, perché non c’è motivo che possa giustificare un’uccisione, ma certamente non se uno mi schiacciava il piede come facevano tanti altri”.

(fonte)

Allora non sono solo

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Claudio Fava pone alcune domande:

“Perché da sei mesi il governo non nomina il nuovo direttore del Dap? Perché la Procura di Palermo è senza un capo? Perché l’agenzia dei beni confiscati è paralizzata?”. Claudio Fava, vicepresidente della Commissione antimafia, denuncia l’inerzia istituzionale sul tema della sicurezza e del contrasto a Cosa nostra. “Da sei mesi esatti il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è senza un responsabile. E da molte procure arrivano segnali preoccupati sullo stato di efficacia del regime del 41 bis. In un momento in cui Cosa Nostra ha deciso di alzare il livello di scontro, con ordini stragisti impartiti direttamente dal carcere, l’inerzia del governo sul nuovo direttore del Dap è inammissibile. Come incomprensibile resta la decisione del Csm di rinviare la nomina del procuratore di Palermo, proprio nei giorni in cui quella procura e quella città sono sotto attacco della mafia”.

Non meno grave, per Fava, il silenzio del governo sulle nomine mancanti per il comitato direttivo dell’Agenzia sui beni confiscati: ”Senza quelle nomine – dice fava – l’Agenzia non può procedere all’assegnazione dei beni che rischiano di marcire dando ragione a chi ripete che con la mafia almeno si lavora”. “Qualcuno spieghi al presidente Renzi – conclude Fava – che la lotta alla mafia non si fa con i comunicati di solidarietà e con le generiche affermazioni di principio ma con le scelte operative, con i comportamenti sul campo, con l’assunzione delle proprie responsabilità

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