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Channel: Antimafia – Giulio Cavalli
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Il pentito Vito Mandrillo disegna la mappa della Sacra Corona Unita sullo Ionio

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(Francesco Casula per Il Fatto)

Passeggiano come se nulla fosse nel cortile del carcere di Lecce con in mano la “santina”, recitano la “favella” e poi la formula del “giuramento” alla Sacra Corona Unita. Accanto a ogni iniziato ci sono almeno cinque persone: rendono valido il rito di affiliazione di un nuovo adepto oppure il “movimento”, il passaggio di grado di un membro dell’organizzazione. Riti, tradizioni mafiose e scalata alle gerarchie criminali che avvengono davanti a ignari agenti della penitenziaria.

Il pentito svela la geografia della Scu
“Era estate: giugno, luglio, prima che uscissi. Era l’R prima sezione, Sezione di isolamento, istituto penitenziario di Lecce. La sezione me la ricordo perché mi spostarono lì perché ebbi delle liti col certi tarantini ed il ‘movimento’ di quarta me l’avevano fatto nella Sezione R Prima, cella numero 11”. Nella calda aula del tribunale di Taranto le parole del collaboratore di giustizia Vito Mandrillo, tagliano il silenzio. Avvocati, giudici, imputati e familiari ascoltano ammutoliti le rivelazioni del 25enne che dopo l’arresto per omicidio ha deciso di collaborare con i pubblici ministeri Alessio Coccioli e Antonella De Luca, scoperchiando la pentola degli affari delle cosche del Tarantino. Perché il disastro ambientale e sanitario causato dalle emissioni dell’Ilva non è il solo problema di questa terra.

Antimafia: “E’ il nuovo Welfare”
Qui “la Sacra corona unita sta diventando un sistema alternativo allo Stato, il nuovo Welfare” ha detto la presidente della commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi. E del resto, non è la prima volta: alla fine degli anni ’80 la guerra di mafia tra il clan dei fratelli Modeo e quello delle famiglie D’Oronzo-De Vitisdiede vita a una vera mattanza: quasi duecento morti ammazzati in tre anni. Poi gli arresti, la nascita del pentitismo e i maxiprocessi come “Ellesponto” e “Penelope” inflissero secoli di carcere a capi e gregari. Ma distanza di 30 anni, in tanti hanno lasciato le celle e la maggior parte ha cercato di riprendere in mano le redini dei clan.

“Mafia tentacolare, bonifica difficile”
Negli ultimi tre anni la Direzione distrettuale antimafia di Lecce e la Procura ionica hanno messo a segno decine di operazioni, un lunghissimo elenco di titoli fantasiosi: Alias, Città nostra, Feudo, Pontefice, Undertaker, Sangue Blu, Game Over, Impresa, Fisheye, Duomo, Neve Tarantina, The old, Kinnamos, No one, Infame, Zar, Terra nostra, Mercatino. Eppure la malavita continua a sopravvivere: “Paradossalmente – ha spiegato la commissione parlamentare antimafia nell’ultima visita – la forza della Scu sta nella sua configurazione reticolare, senza vertice, con famiglie che si spartiscono pacificamente il Salento. E se questo rende possibili operazioni di smantellamento delle singole realtà, ciò però complica la completa bonifica del territorio”. Associazione mafiosa, traffico di droga, estorsioni, usura sono le accuse più frequenti. Gli omicidi sono fortunatamente rari ma, come la storia italiana insegna, quando la criminalità non spara vuol dire che gli affari vanno a gonfie vele. Taranto resta un territorio a sé rispetto al resto del Salento, ma come le cosche salentine ha stretto rapporti con le ‘ndrine calabresi o i gruppi campani: il core business è il traffico di stupefacenti, ma non solo.

Dia: “Accordi con calabresi per gli appalti”
Nella sua relazione semestrale, la Dia ricorda l’operazione Feudo delle Fiamme gialle “che aveva fatto luce sugli accordi stretti con le cosche calabresi per i traffici di sostanze stupefacenti e di tabacchi lavorati esteri, per l’usura e le estorsioni, nonché per acquisire, attraverso prestanome, il controllo di attività economiche e la gestione di appalti e servizi commerciali”. La Direzione investigativa antimafia ha ridisegnato la mappa del capoluogo individuando ben 13 famiglie: “Tali gruppi, ciascuno dominante in un’area circoscritta – in genere coincidente con un rione o un quartiere – in assenza di un capo e di regole comuni, tenderebbero ad accaparrarsi, anche con azioni di forza, il mercato dello spaccio di sostanze stupefacenti e quello estorsivo”.  Poche settimane fa la Corte di Cassazione ha confermato le condanne ai capi e agli affiliati del clan mafioso dei “Taurino” che ha la sua roccaforte nel centro storico, ma è il quartiere “Paolo VI” quello costruito insieme all’Ilva che sembra una polveriera con ben 5 gruppi malavitosi: le famiglie Modeo, Ciaccia, Cesario, Pascali Cicala. In provincia il discorso non cambia con 4 gruppi che si spartiscono il territorio: le famiglie Caporosso-Putignano, Stranieri, Cagnazzo e soprattutto Locorotondo, detto ‘Scarpalonga‘. L’uomo arrestato dai carabinieri nell’operazione ‘The old‘, per la Dia controlla i territori di Crispiano, Palagiano, Palagianello, Mottola, Massafra e Statte oltre a quelli di Pulsano(insieme al gruppo Agosta) e Lizzano (insieme ai fratelli Cataldo e Giuliano Cagnazzo).

Criminali spregiudicati e nuove leve agguerrite
“In provincia – si legge nella relazione – si registra una situazione conflittuale in cui sono maturati un omicidio ed un duplice tentato omicidio commessi a Pulsano, che dimostrano come la spregiudicatezza e la propensione a ricorrere in maniera disinvolta all’uso delle armi siano diventate modalità ordinarie per l’affermazione della leadership in seno ai singoli gruppi criminali o per il controllo del mercato degli stupefacenti. In questo contesto, i vecchi capi, pur mantenendo ruoli predominanti e di direzione strategica, si vedono costretti a relazionarsi con le agguerrite, nuove leve criminali”. Un quadro confermato anche dal collaboratore Mandrillo che ha indicato in ‘Scarpalonga’ uno dei massimi gradi della criminalità tarantina.

Il rito di affiliazione: “Presi la mia cavallina bianca…”
Ha fatto nomi, cognomi e soprannomi, recitato a memoria le formule del cerimoniale partendo dalla “favella”, la filastrocca che ogni aspirate sacrista impara a memoria e declama davanti al suo padrino: «Fu una bella mattina di sabato santo, quando allo spuntare del sole – scandisce Mandrillo in video conferenza da una località protetta – mi venne in mente di fare una bella cavalcata, andai nella mia scuderia bianca, presi la mia cavallina bianca con fronte stellate, briglie d’oro e staffe d’argento e cavalcai per manti e colline fino quando non arrivai su una distesa pianura dove c’erano due uomini che si tiravano di coltello, scesi dalla mia cavallina bianca con fronte stellate, briglie d’ oro e staffe d’argento e mi misi spalla e spalla con il mio avversario “Cosa ne avete fatto?”, “Ne ho fatto sangue”, “E dove l’avete colpito?”, “Sotto all’avambraccio destro”, “Allora siete un bevitore di sangue?”, “Alt, saggi compagni! Non sono un bevitore di sangue, ma come ben sapete non ho fatto altro che unire due anime in un solo corpo”».

Giuramento, gradi e gerarchie
E poi il giuramento e i gradi della gerarchia criminale della Sacra Corona Unita: la «Picciotteria» (che ormai non viene più usata), la «Camorra», lo «Sgarro», la «Santa», il «Vangelo», il «Trequartino», il «Crimine», il «Medaglione», il «Medaglione con Catena» e infine il «Bastone». Qualcosa è certamente cambiato dall’idea originale di Pino Rogoli, il mesagnese fondatore della quarta mafia che si oppose all’espansione in Puglia della camorra, in particolare quella cutoliana, ma che a Taranto ancora sopravvive. Silenziosa e invisibile, ma brutale. Proprio come i fumi e i veleni delle ciminiere di cui fino a qualche anno fa nessuno parlava.


L’odore di ‘ndrangheta nelle cave trentine

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Ferruccio Sansa per Il Fatto Quotidiano:

Il male invisibile ha colpito il Trentino. “È una ‘ndrangheta occulta“, per usare le parole dell’ex ‘ndranghetista Luigi Bonaventura. Guardi la cattedrale di San Vigilio, gli universitari che affollano la piazza, lo splendido Muse di Renzo Piano. Ecco Trento in cima a tutte le classifiche per la qualità della vitad’Italia. Nonostante questo, o forse proprio per questo, la ‘ndrangheta è arrivata fin qui. Ieri la Commissione parlamentare antimafia ha tenuto tre incontri in città. È il primo segno. Nel primo semestre dell’anno scorso sono state 870 le operazioni bancarie o finanziarie segnalate in Trentino perché potevano nascondere riciclaggio di denaro sporco. Mentre la Direzione Investigativa Antimafia parla di 903 segnalazioni in provincia che hanno dato luogo ad approfondimenti.

Ma questi sono numeri. Poi ci sono le persone. Le storie che non credevi proprio di trovare quassù. Come quella di Marco Galvagni, segretario comunale di LonaLases, Comune in mezzo alle valli che vive delle sue montagne. Del porfido. “E proprio alla pietra, alle cave, si è aggrappata la mafia calabrese“, racconta Galvagni. “E’ un gran rompiballe”, così i suoi detrattori cercano di liquidare le denunce che Marco ha inviato ai sindaci della zona. Ma le parole del segretario in Trentino non sembrano creare molte preoccupazioni. Finché pochi mesi fa arriva un’interrogazione parlamentare: “Gli elementi sopra esposti appaiono di per sé gravi e tali da ritenere necessaria anche una tutela del segretario denunciante dottor Marco Galvagni”. Già, un funzionario pubblico presenta una denuncia di venti pagine, precisa, circostanziata, e in Parlamento c’è chi chiede che sia protetto. Perché è in pericolo. Succede a Trento.

Gomorra ora sta a Foggia: un’esecuzione in piena regola per il boss Romito

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Quattro o cinque persone sono entrate in azione sulla strada provinciale 272 tra Apricena e San Marco in Lamis, in provincia di Foggia. Si tratta dell’ennesimo omicidio dall’inizio del 2017: negli ultimi 8 mesi si contano 17 morti tra Capitanata e Gargano. Uccisi anche due contadini incensurati, la cui una colpa è stata assistere all’omicidio. Il sindaco: “Episodio orribile, intervenga il governo”
Un’esecuzione in pieno giorno, in strada, vicino alla stazione di San Marco in Lamis, nel Foggiano. Con due vittime innocenti, colpevoli solo di aver assistito all’omicidio di un presunto boss. L’ennesimo agguato nella guerra di mafia che si sta consumando tra la Capitanata e il Gargano dall’inizio dell’anno rompe gli schemi del passato, colpendo anche i testimoni delle faide, che hanno lasciato sull’asfalto 17 morti nel 2017. Otto da giugno ad oggi. Mercoledì mattina un commando ha ucciso le ultime quattro persone tra Apricena e San Marco in Lamis. Due le vittime designate: Mario Luciano Romito, figura di spicco dell’omonimo clan di Manfredonia e suo cognato. Mentre gli altri due assassinati sono dei contadini incensurati, i fratelli Luigi e Aurelio Luciani, testimoni involontari dell’agguato.

I killer sono entrati in azione poco dopo le 10 sulla Strada provinciale 272 nei pressi della stazione ferroviaria. Romito viaggiava con il cognato su un Maggiolino quando è stato affiancato da una vettura con 4 o 5 persone a bordo che hanno aperto il fuoco con kalashnikov, fucili a canne mozze e pistole. Poi, a quanto pare, il commando ha fatto fuori i due contadini perché avevano assistito all’esecuzione: Luigi e Aurelio Luciani sono stati inseguiti nei campi e freddati senza pietà. Tre i morti sul colpo, mentre uno dei due agricoltori – rimasto in un primo momento gravemente ferito – è deceduto durante il trasporto verso l’ospedale di San Severo. Assieme a Mario Romito, presunto boss sfuggito nel 2009 e nel 2010 ad altri due agguati nei quali morirono suoi parenti, è stato freddato il cognato Matteo Di Palma. La famiglia della vittima (nella foto accanto, ndr) è in guerra da trent’anni con il clan dei Libergolis, recentemente decapitato da diverse inchieste della magistratura.

Chiara agli investigatori la matrice mafiosa dell’assalto che potrebbe essere l’ultimo capitolo di una scia di sangue che va avanti da maggio, quando due persone vennero ferite a colpi di kalashnikov tra le bancarelle del mercato di San Marco in Lamis. Un’azione seguita dal duplice omicidio di Antonio Petrella e suo nipote Nicola Ferrelli, ritenuto vicino al clan Di Summa. I due vennero ammazzati senza pietà il 20 giugno alla periferia di Apricena. Dopo averli affiancati in corsa, i killer crivellarono di colpi la loro auto con pistole, fucili e kalashnikov. Poi scesero e, secondo la ricostruzione degli investigatori, hanno finito i due con diversi colpi al volto, sfigurandoli. Una mattanza che, forse, è stata vendicata con l’agguato di oggi.

Lo scorso 27 luglio, invece, a Vieste, sempre nel Foggiano, un uomo legato alla mala garganica era stata assassinato all’ora di pranzo all’interno della propria attività commerciale davanti alla propria famiglia e ai turisti. Con l’agguato di oggi, sale a 17 il numero di vittime di omicidi legati alla guerra di mafia in atto tra la Capitanata e il Gargano da oltre un anno.

“E’ un episodio orribile, non conosciamo ancora i dettagli di quanto avvenuto ma negli ultimi mesi sono tanti gli episodi che hanno coinvolto la nostra provincia. Occorre al più presto un incontro tra tutti i rappresentanti del territorio con il ministro dell’Interno“, afferma il sindaco di San Marco in Lamis, Michele Merla. “Vogliamo essere ascoltati – ha aggiunto il sindaco – così non si può andare avanti. Serve un intervento del governo, le istituzioni nazionali devono intervenire per la nostra provincia, non possiamo più assistere a questa efferatezza”.

(fonte)

Puglia. La mafia dimenticata. (di Carlo Lucarelli)

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Già è la parola ad essere fuorviante. Faida. Per carità, tecnicamente è giusta, anzi, è stata usata anche per le mattanze calabresi degli Anni 80 e 90, però anche allora dava un’impressione sbagliata.

 

Faida. Una serie di vendette familiari che si tramandano nel tempo e che riguardano una comunità ristretta, famiglie appunto, gruppi di amici, al massimo clan. Viene da pensare istintivamente ad un paio di cose, anzi, tre. Ad una causa scatenante, così persa nella profondità del tempo e magari futile come un furto di galline o l’occhiata sbagliata ad una ragazza, che nessuno se ne ricorda più. Viene da pensare ad una situazione degradata e lontana, da frontiera selvaggia, violenta e senza legge, dove ci si fa giustizia da soli con la pistola al cinturone. E viene da pensare che in fondo si ammazzano tra loro, per cui vabbè.

 

In provincia di Foggia, in questi giorni, per la cosiddetta «faida del Gargano» sono state ammazzate quattro persone. Sono le ultime di una lunga lista che solo dall’inizio dell’anno conta ben diciassette morti, più due scomparsi per quella che chiamiamo letterariamente lupara bianca e che di solito significa comunque essere ammazzato. In Puglia, in quella regione ricca, bella e organizzata, che con il Far West ha in comune soltanto l’essere chiamata «la California del Sud». E non si ammazzano neanche tra di loro e basta, dal momento che nell’ultima strage, oltre a due uomini ritenuti parte di un clan criminale ci sono due contadini che passavano semplicemente di là e hanno visto quello che non dovevano vedere, e che così si aggiungono ai più quaranta nomi di pugliesi letti ogni anno tra più di novecento nel Giorno della Memoria e del Ricordo delle vittime innocenti per mafia. Perché per quanto tecnicamente sia giustissimo chiamarle faide, di questo comunque si tratta.

Guerre di mafia. Eppure, non è che quello che sta accadendo in parte della Puglia, e mica solo dalla fine dell’anno, abbia suscitato tanto scalpore. O almeno, non abbastanza, perché chi le cose le vive direttamente se ne è accorto da un pezzo e di denunce e iniziative anche istituzionali ce ne sono state, ma a me sembra, appunto, non abbastanza. In una regione ricca e piena di interessi, quando la criminalità organizzata spara e ammazza dovremmo immediatamente pensare ad obbiettivi che fanno paura e invece pare che a livello nazionale, dall’opinione pubblica ma anche da parte delle istituzioni, la situazione venga percepita come la normale fisiologia di una mafia minore, già sconfitta a suo tempo.

Mafia minore. È così che è sempre stata considerata la mafia pugliese, la cosiddetta Sacra Corona Unita, nonostante le decine di morti ammazzati, le bombe, le stragi da film di gangster come quella del Circolo Bacardi di Foggia nell’86, la testa mozzata di Nicola Laviano fotografata e mostrata in giro, i miliardi – prima di lire e poi di euro – derivati dai traffici e dal controllo di attività illecite ma anche lecite, almeno apparentemente. Una mafia giovane, nata artificialmente in carcere e colonizzata dalle cosiddette mafie maggiori, Cosa Nostra, Camorra, ’Ndrangheta. Mafia minore, insomma. E forse sta anche qui la mancanza di attenzione attuale ad un fenomeno che avrebbe dovuto farci paura da un pezzo, ancora prima che arrivassero – solo tra gli ultimi – due fratelli che passavano di lì per caso con il loro furgoncino, e uno dei due, che corre disperato inseguito dai killer per i campi, come il giudice Rosario Livatino ad Agrigento. Perché alle mafie, dal punto di vista mediatico ma anche politico, succede quello che accade ai delitti di cronaca. Ce ne sono alcuni più «fortunati» – tra virgolette – che per il tipo di vittima o di assassino, per il luogo o il momento in cui sono avvenuti, colpiscono l’immaginazione, si guadagnano un nome – Cogne, via Poma, la strage di Erba – ed entrano a far parte di una narrazione mediatica che va oltre le inchieste e le motivazioni delle sentenze.

Cosa Nostra è un vero e proprio marchio internazionale e basta pronunciarlo per pensare ad una serie di cose che vanno dalla Trattiva alle stragi al sigaro cubano di Luciano Liggio e al Sacco di Palermo, passando per «Il Padrino», gli orrendi ristoranti spagnoli che utilizzavano il nome della Mafia e al piccolo Santino Di Matteo sciolto nell’acido. Un mondo, col quale abbiamo una familiarità che fa subito scattare un immaginario, con tutte le informazioni, le sensazioni e le emozioni che si porta dietro.

Prima di Gomorra e di Roberto Saviano, per esempio, c’era a Casal di Principe una mafia sconosciuta e totalmente oscurata da una star del crimine come Cutolo, che nessuno avrebbe potuto nominare neanche uno dei suoi boss. Oggi Sandokan Schiavone, per esempio, lo conosciamo tutti, e la pericolosità pervasiva e massiccia dei Casalesi, anche questo vero e proprio marchio di fabbrica, ci fa abbastanza paura.

Ora, non è che bastino gli scrittori a cambiare il mondo, la mafia pugliese è anche stata raccontata da film come «Galantuomini» di Edoardo Winspeare o da romanzi come il bellissimo «L’estate fredda» di Gianrico Carofiglio, solo per citarne alcuni, ci sono stati processi e inchieste – tra cui quelle dello stesso presidente della Regione, Michele Emiliano – che veramente l’hanno quasi sconfitta, ci sono stati articoli e saggi, eppure quello che sta accadendo adesso in Puglia a me sembra non abbia ancora la visibilità e la concreta inquietudine che merita. Sono io che mi sbaglio? Per mia personale e banale disinformazione, per esempio?

Insomma, cosa sta succedendo nella bella, ricca e organizzata Puglia – aggettivi che uso con affetto e convinzione- una fisiologica attività criminale? Morti che fanno male come tutti i morti ammazzati, ma che restano nell’ambito di una «faida»? O una inquietante, pericolosa e ancora non compresa guerra di mafia?

(fonte)

“Considerata troppo a lungo di Serie B”: Roberti sulla mafia foggiana

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Il procuratore parla di “difficoltà ad investigare” e spiega come i traffici di droga con l’Albania siano il legame da spezzare per disturbare i clan. Il Comune di Foggia – spiega – non si è costituito parte civile in un importante processo che si è recentemente celebrato contro i clan: “Un segnale estremamente negativo che va stigmatizzato”
Il procuratore nazionale Antimafia lo dice senza giri di parole, il giorno dopo la strage di San Marco in Lamis: “La criminalità pugliese e in particolare questa efferatissima forma di criminalità foggiana, è stata considerata troppo a lungo una mafia di serie B“. Intervenendo nella trasmissione 6 su Radio 1, il magistrato ha spiegato che le faide tra clan nel Foggiano vanno avanti da 30 anni e “ci sono stati 300 omicidi, l’80% di questi è rimasto impunito”.

Solo da gennaio ad oggi sono stati 17, ai quali bisogna aggiungere almeno 2 casi di lupara bianca, l’ultimo risalente allo scorso maggio quando è scomparso nel nulla Pasquale Notarangelo, nipote del presunto boss Angelo ‘Cintaridd, ammazzato nel gennaio 2015, e figlio di Onofrio, tra i primi caduti del 2017 nella guerra di Vieste. Roberti, inascoltato, aveva ribadito un concetto simile già ad aprile definendo “quarta mafia” quella foggiana.

Il numero di omicidi irrisolti, spiega Roberti, “la dice lunga sulle difficoltà di investigare”. “Oggi lo scontro si è acceso attorno al traffico di stupefacenti, in particolare di droghe leggere dall’Albania. Un affare colossale che scatena gli appetiti dei clan e che investe, partendo dal foggiano, tutta la dorsale adriatica fino all’Europa. La mafia foggiana è una costola della camorra napoletana – ha spiegato il procuratore nazionale Antimafia – Negli ultimi tempi sono state rafforzate le strutture investigative sul territorio e credo che si procederà oltre. Ad aprile scorso è stata aperta una sezione del Ros a Foggia che mancava, la Procura distrettuale di Bari si prodiga moltissimo per coordinare le indagini”.

Nelle prossime ore, il ministro degli Interni Marco Minniti presiderà il comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza in Prefettura a Foggia e poi incontrerà i sindaci dei Comuni coinvolti nelle faide che stanno insanguinando il territorio. La prima risposta – secondo quanto trapela – sarà proprio il raddoppio della struttura investigativa Anticrimine. Del resto, anche la presidente della Commissione Antimafia, Rosy Bindi, aveva spiegato come “nelle nostre missioni in varie zone d’Italia abbiamo registrato due criticità, una delle quali riguarda Foggia, dove ci è stato sottolineato il problema di immettere personale che abbia la capacità di leggere problematiche che prima non c’erano”. Investigatori ancora più numerosi – e specializzati – per contrastare l’escalation degli ultimi mesi.

“Servono più presidi di polizia, più professionalità nelle forze di polizia. Bisogna mandare in quel territorio il meglio delle professionalità investigative, lo ha detto recentemente la presidente della Commissione Antimafia – ha ricordato Roberti a Radio 1 – e io lo condivido perché se questa è una priorità, è non c’è dubbio che il contrasto alla criminalità foggiana sia una priorità assoluta, allora bisogna mettere in campo il meglio delle risorse”.

Allo stesso tempo, restano problemi strutturali. Come aveva spiegato ilfattoquotidiano.it a marzo, la Procura di Foggia, dove si fanno i salti mortali per star dietro ai delitti di mafia e a una microcriminalità diffusa, conta 18 sostituti procuratori e due aggiunti. Diciotto sostituti contro 28 clan criminali e circa 8-900 affiliati, secondo le stime del ministero dell’Interno risalenti alla primavera 2015. E invece dovrebbero essere in 22 a sorvegliare sulla Società foggiana e sulla mafia del Gargano. Quattro in meno, dunque, per controllare tutta la provincia più Margherita di Savoia, Trinitapoli e San Ferdinando di Puglia, comuni che appartengono alla provincia BAT ma ricadono sotto la giurisdizione della procura foggiana. A conti fatti vuol dire circa 700mila persone, oltre a circa 30mila irregolari. E la Direzione distrettuale Antimafia è a Bari, oltre cento chilometri di distanza.

“Naturalmente bisogna fare di più, anche sul piano della cooperazione internazionale per frenare i fiumi di droghe leggere che arrivano dall’Albania perché sono quelli che stanno scatenando la faida. Siamo andati in Albania nei mesi scorsi a chiedere cooperazione, abbiamo incontrato a Roma il Ministro degli Interni albanese che ha promesso maggiore collaborazione – ha aggiunto Roberti – Bisogna vincere l’omertà e per farlo bisogna creare una cultura della legalità che in quel territorio è ancora molto latente. Il Procuratore capo di Bari, Giuseppe Volpe, fa benissimo a invocare maggiore collaborazione da parte dei cittadini”.

Nelle scorse ore, Daniela Marcone, foggiana e vice-presidente nazionale di Libera, ha parlato a ilfattoquotidiano.it di “nuova resistenza” della società civile, necessaria per sconfiggere i clan. E anche secondo il procuratore nazionale Antimafia “con il massimo sforzo da parte dello Stato, io sono convinto che arriverà anche la collaborazione dei cittadini perché senza collaborazione dei cittadini purtroppo non si va molto lontano”, ha concluso. Non prima di aver ricordato come nell’ultimo processo “importantissimo che si è celebrato a Foggia, condotto dalla Procura Distrettuale di Bari per una catena enorme di estorsioni, purtroppo non si è registrata la partecipazione della società civile. Il Comune di Foggia non si è nemmeno costituito parte civile del processo e questo è un segnale estremamente negativo che va stigmatizzato”.

Mafia del Gargano: l’appello della cognata dei due agricoltori uccisi durante i funerali: “La mafia è connivenza, è girare la testa dall’altra parte. Non abbassate lo sguardo”

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La donna, insegnante di Lettere, ha lanciato un accorato appello rivolto soprattutto ai giovani, futuro del Paese. “Questa realtà ci appartiene: non abbassate lo sguardo. Luigi e Aurelio ne sono stati travolti e con loro tutti noi”
“La mafia è connivenza: è girare la testa dall’altra parte. Voi non abbassate lo sguardo”. Risuona forte l’appello nella chiesa Santissima Annunziata di San Marco in Lamis, in provincia di Foggia, durante i funerali di Aurelio e Luigi Luciani, i due fratelli contadini uccisi probabilmente perché “colpevoli” di aver assistito all’agguato contro il presunto boss Mario Luciano Romito. A pronunciarlo è la cognata delle vittime che dall’altare ha lanciato un accorato appello rivolto soprattutto ai giovani, “sogno e speranza” del futuro. “Da insegnate ho sempre spiegato la mafia – le parole della donna, professoressa di lettere – Ho cercato di farvi capire ma abbiamo sempre studiato una realtà che sembrava non appartenerci. No ragazzi miei, questa realtà ci appartiene”.

“La mafia è qui, serpeggia nei nostri ambienti: cruda, cieca e silenziosa – continua l’insegnate – La mafia è connivenza. La mafia è girare la testa dall’altra parte. Voi non abbassate lo sguardo. La mafia è un atteggiamento subdolo. La mafia non ha la pietas degli antichi eroi che rendevano onore ai propri avversari. La mafia insegue. La mafia crivella di colpi. La mafia uccide chi aveva l’unica colpa di essere in quel momento al lavoro. E Luigi e Aurelio ne sono stati travolti e con loro tutti noi”. Le parole forti seguono l’appello del ministro Marco Minniti che ieri aveva chiesto una “rivolta morale” per sconfiggere la mafia foggiana.

Una situazione, quella sul Gargano, in cui non è semplice mettere ordine, dove le mafie sono rafforzate dall’omertà anche della popolazione, stigmatizzata in una recente relazione della Dia. Un connubio micidiale quello tra mafia e omertà che, come scrive la Direzione nazionale antimafia nell’ultima relazione, ha portato a un “capillare controllo del territorio” da parte di un’organizzazione criminale “moderna e flessibile”, proiettata verso il “modello di mafia degli affari”, ma che trae “la sua forza dalla capacità di coniugare la sua proiezione più avanzata con i tradizionali modelli culturali del territorio, primo tra tutti l’omertà”.

Ed è proprio contro “quel girare la testa dall’altra parte” che si è schierato ieri il ministro dell’interno al termine del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica a Foggia, invitando gli stessi cittadini alla rivolta morale. “La lotta contro le mafie è una grande battaglia di civiltà – ha spiegato Minniti – E naturalmente su questo fronte è molto importante coinvolgere l’opinione pubblica, avere cioè un partecipazione attiva della gente ed è per questo che io oggi ho voluto ascoltare i sindaci e i loro consigli. E a loro ho chiesto di essere parte attiva, perché serve una sorta di rivolta morale nelle popolazioni di questa Provincia”.

(fonte)

È sentenza: in Lombardia “c’è stato patto di scambio tra le cosche e la politica”. Così cadde Formigoni.

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Parlano di “un patto di scambio” avvenuto “concretamente” tra l’ex assessore regionale Domenico Zambetti e Eugenio Costantino e Giuseppe D’Agostino come “referenti e portavoce di alcune importanti famiglie mafiose della ‘ndrangheta lombarda” le motivazioni della sentenza con cui il Tribunale lo scorso febbraio ha inflitto pene dai 16 anni e mezzo in giù (13,5 a Zambetti), nell’ambito del processo sulle presunte infiltrazioni delle cosche calabresi in Lombardia e sul voto di scambio. Nelle quasi 500 pagine il giudice Maria Luisa Balzarotti scrive che il “contraente” di Zambetti è una organizzazione criminale unitaria in cui sono federate le famiglie di ‘ndrangheta operanti in Lombardia”. Inoltre “tale compattezza e unitarietà che rende elevatissimo il potere criminale dell’associazione è nota a Zambetti, ed è ciò che gli garantisce di trarne dal negozio illecito l’utilità che si propone: quella cioè di ottenere un numero di voti, di tale entità da assicurare la sua elezione nella competizione per il rinnovo del consiglio regionale del 28-29 marzo 2010”.

Per il magistrato, che ha depositato le motivazioni sabato scorso, è “inequivocabile” che i due esponenti delle organizzazioni criminali, con “la collaborazione” di altre persone tra cui Ambrogio Crespi (fratello dell’ex sondaggista di Berlusconi e condannato a 12 anni, ndr), “hanno raccolto effettivamente i voti promessi a Zambetti(…) e di contro, l’assessore regionale, dopo una iniziale ritrosia, ha versato in contanti il corrispettivo precedentemente pattuito nelle loro mani”. Corrispettivo che, secondo l’accusa, sarebbe ammontato a 200 mila euro per circa quattromila voti.

Domenico Zambetti, l’ex assessore regionale tra le persone condannate lo scorso febbraio nell’ambito del processo sulle presunte infiltrazioni delle cosche calabresi in Lombardia e sul voto di scambio, “ha dato dimostrazione di essere pienamente consapevole delle capacità di intimidazione del gruppo criminale, al quale si è volontariamente e consapevolmente rivolto per reclutare i suffragi”. Lo scrive il giudice Maria Luisa Balzarotti nelle motivazioni della sentenza, sottolineando che “la particolare qualità del contraente di Zambetti- la federazione delle più importanti famiglie di ‘ndrangheta insediate nel territorio lombardo – sodalizio di cui è notorio il potere criminale e che ha esercitato in concreto (…) un condizionamento diffuso e fondato sulla prepotenza e sulla sopraffazione (…) rende evidente che l’accordo negoziale illecito non ha esaurito il proprio contenuto nello scambio di voti contro denaro, ma ha incluso l’impiego, presso gli elettori, del potere di condizionamento mafiosi”.

Per il giudice “Zambetti ha, consapevolmente, scelto quale contraente un tale terribile centro di potere perché puntava al bacino elettorale lombardo della ‘lobby calabrese’ e al consenso dell’intera consorteria. Un’indicazione di voto – si legge ancora – proveniente da tale sodalizio (…) che, in quanto tale, è sorretta dalla forza intimidatrice del vincolo associativo, al di là di atti di violenza o di minaccia, (…) avrebbe potuto consentirgli di conseguire nel bacino territoriale della Lombardia, in cui il sodalizio è ormai storicamente radicato, il quantitativo di voti propostogli”.

(fonte)

A me è venuta una fantasia

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Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno… La linea della palma… Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già, oltre Roma…

 

(Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta)


Il pentito Vito Mandrillo disegna la mappa della Sacra Corona Unita sullo Ionio

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(Francesco Casula per Il Fatto)

Passeggiano come se nulla fosse nel cortile del carcere di Lecce con in mano la “santina”, recitano la “favella” e poi la formula del “giuramento” alla Sacra Corona Unita. Accanto a ogni iniziato ci sono almeno cinque persone: rendono valido il rito di affiliazione di un nuovo adepto oppure il “movimento”, il passaggio di grado di un membro dell’organizzazione. Riti, tradizioni mafiose e scalata alle gerarchie criminali che avvengono davanti a ignari agenti della penitenziaria.

Il pentito svela la geografia della Scu
“Era estate: giugno, luglio, prima che uscissi. Era l’R prima sezione, Sezione di isolamento, istituto penitenziario di Lecce. La sezione me la ricordo perché mi spostarono lì perché ebbi delle liti col certi tarantini ed il ‘movimento’ di quarta me l’avevano fatto nella Sezione R Prima, cella numero 11”. Nella calda aula del tribunale di Taranto le parole del collaboratore di giustizia Vito Mandrillo, tagliano il silenzio. Avvocati, giudici, imputati e familiari ascoltano ammutoliti le rivelazioni del 25enne che dopo l’arresto per omicidio ha deciso di collaborare con i pubblici ministeri Alessio Coccioli e Antonella De Luca, scoperchiando la pentola degli affari delle cosche del Tarantino. Perché il disastro ambientale e sanitario causato dalle emissioni dell’Ilva non è il solo problema di questa terra.

Antimafia: “E’ il nuovo Welfare”
Qui “la Sacra corona unita sta diventando un sistema alternativo allo Stato, il nuovo Welfare” ha detto la presidente della commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi. E del resto, non è la prima volta: alla fine degli anni ’80 la guerra di mafia tra il clan dei fratelli Modeo e quello delle famiglie D’Oronzo-De Vitisdiede vita a una vera mattanza: quasi duecento morti ammazzati in tre anni. Poi gli arresti, la nascita del pentitismo e i maxiprocessi come “Ellesponto” e “Penelope” inflissero secoli di carcere a capi e gregari. Ma distanza di 30 anni, in tanti hanno lasciato le celle e la maggior parte ha cercato di riprendere in mano le redini dei clan.

“Mafia tentacolare, bonifica difficile”
Negli ultimi tre anni la Direzione distrettuale antimafia di Lecce e la Procura ionica hanno messo a segno decine di operazioni, un lunghissimo elenco di titoli fantasiosi: Alias, Città nostra, Feudo, Pontefice, Undertaker, Sangue Blu, Game Over, Impresa, Fisheye, Duomo, Neve Tarantina, The old, Kinnamos, No one, Infame, Zar, Terra nostra, Mercatino. Eppure la malavita continua a sopravvivere: “Paradossalmente – ha spiegato la commissione parlamentare antimafia nell’ultima visita – la forza della Scu sta nella sua configurazione reticolare, senza vertice, con famiglie che si spartiscono pacificamente il Salento. E se questo rende possibili operazioni di smantellamento delle singole realtà, ciò però complica la completa bonifica del territorio”. Associazione mafiosa, traffico di droga, estorsioni, usura sono le accuse più frequenti. Gli omicidi sono fortunatamente rari ma, come la storia italiana insegna, quando la criminalità non spara vuol dire che gli affari vanno a gonfie vele. Taranto resta un territorio a sé rispetto al resto del Salento, ma come le cosche salentine ha stretto rapporti con le ‘ndrine calabresi o i gruppi campani: il core business è il traffico di stupefacenti, ma non solo.

Dia: “Accordi con calabresi per gli appalti”
Nella sua relazione semestrale, la Dia ricorda l’operazione Feudo delle Fiamme gialle “che aveva fatto luce sugli accordi stretti con le cosche calabresi per i traffici di sostanze stupefacenti e di tabacchi lavorati esteri, per l’usura e le estorsioni, nonché per acquisire, attraverso prestanome, il controllo di attività economiche e la gestione di appalti e servizi commerciali”. La Direzione investigativa antimafia ha ridisegnato la mappa del capoluogo individuando ben 13 famiglie: “Tali gruppi, ciascuno dominante in un’area circoscritta – in genere coincidente con un rione o un quartiere – in assenza di un capo e di regole comuni, tenderebbero ad accaparrarsi, anche con azioni di forza, il mercato dello spaccio di sostanze stupefacenti e quello estorsivo”.  Poche settimane fa la Corte di Cassazione ha confermato le condanne ai capi e agli affiliati del clan mafioso dei “Taurino” che ha la sua roccaforte nel centro storico, ma è il quartiere “Paolo VI” quello costruito insieme all’Ilva che sembra una polveriera con ben 5 gruppi malavitosi: le famiglie Modeo, Ciaccia, Cesario, Pascali Cicala. In provincia il discorso non cambia con 4 gruppi che si spartiscono il territorio: le famiglie Caporosso-Putignano, Stranieri, Cagnazzo e soprattutto Locorotondo, detto ‘Scarpalonga‘. L’uomo arrestato dai carabinieri nell’operazione ‘The old‘, per la Dia controlla i territori di Crispiano, Palagiano, Palagianello, Mottola, Massafra e Statte oltre a quelli di Pulsano(insieme al gruppo Agosta) e Lizzano (insieme ai fratelli Cataldo e Giuliano Cagnazzo).

Criminali spregiudicati e nuove leve agguerrite
“In provincia – si legge nella relazione – si registra una situazione conflittuale in cui sono maturati un omicidio ed un duplice tentato omicidio commessi a Pulsano, che dimostrano come la spregiudicatezza e la propensione a ricorrere in maniera disinvolta all’uso delle armi siano diventate modalità ordinarie per l’affermazione della leadership in seno ai singoli gruppi criminali o per il controllo del mercato degli stupefacenti. In questo contesto, i vecchi capi, pur mantenendo ruoli predominanti e di direzione strategica, si vedono costretti a relazionarsi con le agguerrite, nuove leve criminali”. Un quadro confermato anche dal collaboratore Mandrillo che ha indicato in ‘Scarpalonga’ uno dei massimi gradi della criminalità tarantina.

Il rito di affiliazione: “Presi la mia cavallina bianca…”
Ha fatto nomi, cognomi e soprannomi, recitato a memoria le formule del cerimoniale partendo dalla “favella”, la filastrocca che ogni aspirate sacrista impara a memoria e declama davanti al suo padrino: «Fu una bella mattina di sabato santo, quando allo spuntare del sole – scandisce Mandrillo in video conferenza da una località protetta – mi venne in mente di fare una bella cavalcata, andai nella mia scuderia bianca, presi la mia cavallina bianca con fronte stellate, briglie d’oro e staffe d’argento e cavalcai per manti e colline fino quando non arrivai su una distesa pianura dove c’erano due uomini che si tiravano di coltello, scesi dalla mia cavallina bianca con fronte stellate, briglie d’ oro e staffe d’argento e mi misi spalla e spalla con il mio avversario “Cosa ne avete fatto?”, “Ne ho fatto sangue”, “E dove l’avete colpito?”, “Sotto all’avambraccio destro”, “Allora siete un bevitore di sangue?”, “Alt, saggi compagni! Non sono un bevitore di sangue, ma come ben sapete non ho fatto altro che unire due anime in un solo corpo”».

Giuramento, gradi e gerarchie
E poi il giuramento e i gradi della gerarchia criminale della Sacra Corona Unita: la «Picciotteria» (che ormai non viene più usata), la «Camorra», lo «Sgarro», la «Santa», il «Vangelo», il «Trequartino», il «Crimine», il «Medaglione», il «Medaglione con Catena» e infine il «Bastone». Qualcosa è certamente cambiato dall’idea originale di Pino Rogoli, il mesagnese fondatore della quarta mafia che si oppose all’espansione in Puglia della camorra, in particolare quella cutoliana, ma che a Taranto ancora sopravvive. Silenziosa e invisibile, ma brutale. Proprio come i fumi e i veleni delle ciminiere di cui fino a qualche anno fa nessuno parlava.

L’odore di ‘ndrangheta nelle cave trentine

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Ferruccio Sansa per Il Fatto Quotidiano:

Il male invisibile ha colpito il Trentino. “È una ‘ndrangheta occulta“, per usare le parole dell’ex ‘ndranghetista Luigi Bonaventura. Guardi la cattedrale di San Vigilio, gli universitari che affollano la piazza, lo splendido Muse di Renzo Piano. Ecco Trento in cima a tutte le classifiche per la qualità della vitad’Italia. Nonostante questo, o forse proprio per questo, la ‘ndrangheta è arrivata fin qui. Ieri la Commissione parlamentare antimafia ha tenuto tre incontri in città. È il primo segno. Nel primo semestre dell’anno scorso sono state 870 le operazioni bancarie o finanziarie segnalate in Trentino perché potevano nascondere riciclaggio di denaro sporco. Mentre la Direzione Investigativa Antimafia parla di 903 segnalazioni in provincia che hanno dato luogo ad approfondimenti.

Ma questi sono numeri. Poi ci sono le persone. Le storie che non credevi proprio di trovare quassù. Come quella di Marco Galvagni, segretario comunale di LonaLases, Comune in mezzo alle valli che vive delle sue montagne. Del porfido. “E proprio alla pietra, alle cave, si è aggrappata la mafia calabrese“, racconta Galvagni. “E’ un gran rompiballe”, così i suoi detrattori cercano di liquidare le denunce che Marco ha inviato ai sindaci della zona. Ma le parole del segretario in Trentino non sembrano creare molte preoccupazioni. Finché pochi mesi fa arriva un’interrogazione parlamentare: “Gli elementi sopra esposti appaiono di per sé gravi e tali da ritenere necessaria anche una tutela del segretario denunciante dottor Marco Galvagni”. Già, un funzionario pubblico presenta una denuncia di venti pagine, precisa, circostanziata, e in Parlamento c’è chi chiede che sia protetto. Perché è in pericolo. Succede a Trento.

Gomorra ora sta a Foggia: un’esecuzione in piena regola per il boss Romito

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Quattro o cinque persone sono entrate in azione sulla strada provinciale 272 tra Apricena e San Marco in Lamis, in provincia di Foggia. Si tratta dell’ennesimo omicidio dall’inizio del 2017: negli ultimi 8 mesi si contano 17 morti tra Capitanata e Gargano. Uccisi anche due contadini incensurati, la cui una colpa è stata assistere all’omicidio. Il sindaco: “Episodio orribile, intervenga il governo”
Un’esecuzione in pieno giorno, in strada, vicino alla stazione di San Marco in Lamis, nel Foggiano. Con due vittime innocenti, colpevoli solo di aver assistito all’omicidio di un presunto boss. L’ennesimo agguato nella guerra di mafia che si sta consumando tra la Capitanata e il Gargano dall’inizio dell’anno rompe gli schemi del passato, colpendo anche i testimoni delle faide, che hanno lasciato sull’asfalto 17 morti nel 2017. Otto da giugno ad oggi. Mercoledì mattina un commando ha ucciso le ultime quattro persone tra Apricena e San Marco in Lamis. Due le vittime designate: Mario Luciano Romito, figura di spicco dell’omonimo clan di Manfredonia e suo cognato. Mentre gli altri due assassinati sono dei contadini incensurati, i fratelli Luigi e Aurelio Luciani, testimoni involontari dell’agguato.

I killer sono entrati in azione poco dopo le 10 sulla Strada provinciale 272 nei pressi della stazione ferroviaria. Romito viaggiava con il cognato su un Maggiolino quando è stato affiancato da una vettura con 4 o 5 persone a bordo che hanno aperto il fuoco con kalashnikov, fucili a canne mozze e pistole. Poi, a quanto pare, il commando ha fatto fuori i due contadini perché avevano assistito all’esecuzione: Luigi e Aurelio Luciani sono stati inseguiti nei campi e freddati senza pietà. Tre i morti sul colpo, mentre uno dei due agricoltori – rimasto in un primo momento gravemente ferito – è deceduto durante il trasporto verso l’ospedale di San Severo. Assieme a Mario Romito, presunto boss sfuggito nel 2009 e nel 2010 ad altri due agguati nei quali morirono suoi parenti, è stato freddato il cognato Matteo Di Palma. La famiglia della vittima (nella foto accanto, ndr) è in guerra da trent’anni con il clan dei Libergolis, recentemente decapitato da diverse inchieste della magistratura.

Chiara agli investigatori la matrice mafiosa dell’assalto che potrebbe essere l’ultimo capitolo di una scia di sangue che va avanti da maggio, quando due persone vennero ferite a colpi di kalashnikov tra le bancarelle del mercato di San Marco in Lamis. Un’azione seguita dal duplice omicidio di Antonio Petrella e suo nipote Nicola Ferrelli, ritenuto vicino al clan Di Summa. I due vennero ammazzati senza pietà il 20 giugno alla periferia di Apricena. Dopo averli affiancati in corsa, i killer crivellarono di colpi la loro auto con pistole, fucili e kalashnikov. Poi scesero e, secondo la ricostruzione degli investigatori, hanno finito i due con diversi colpi al volto, sfigurandoli. Una mattanza che, forse, è stata vendicata con l’agguato di oggi.

Lo scorso 27 luglio, invece, a Vieste, sempre nel Foggiano, un uomo legato alla mala garganica era stata assassinato all’ora di pranzo all’interno della propria attività commerciale davanti alla propria famiglia e ai turisti. Con l’agguato di oggi, sale a 17 il numero di vittime di omicidi legati alla guerra di mafia in atto tra la Capitanata e il Gargano da oltre un anno.

“E’ un episodio orribile, non conosciamo ancora i dettagli di quanto avvenuto ma negli ultimi mesi sono tanti gli episodi che hanno coinvolto la nostra provincia. Occorre al più presto un incontro tra tutti i rappresentanti del territorio con il ministro dell’Interno“, afferma il sindaco di San Marco in Lamis, Michele Merla. “Vogliamo essere ascoltati – ha aggiunto il sindaco – così non si può andare avanti. Serve un intervento del governo, le istituzioni nazionali devono intervenire per la nostra provincia, non possiamo più assistere a questa efferatezza”.

(fonte)

Puglia. La mafia dimenticata. (di Carlo Lucarelli)

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Già è la parola ad essere fuorviante. Faida. Per carità, tecnicamente è giusta, anzi, è stata usata anche per le mattanze calabresi degli Anni 80 e 90, però anche allora dava un’impressione sbagliata.

 

Faida. Una serie di vendette familiari che si tramandano nel tempo e che riguardano una comunità ristretta, famiglie appunto, gruppi di amici, al massimo clan. Viene da pensare istintivamente ad un paio di cose, anzi, tre. Ad una causa scatenante, così persa nella profondità del tempo e magari futile come un furto di galline o l’occhiata sbagliata ad una ragazza, che nessuno se ne ricorda più. Viene da pensare ad una situazione degradata e lontana, da frontiera selvaggia, violenta e senza legge, dove ci si fa giustizia da soli con la pistola al cinturone. E viene da pensare che in fondo si ammazzano tra loro, per cui vabbè.

 

In provincia di Foggia, in questi giorni, per la cosiddetta «faida del Gargano» sono state ammazzate quattro persone. Sono le ultime di una lunga lista che solo dall’inizio dell’anno conta ben diciassette morti, più due scomparsi per quella che chiamiamo letterariamente lupara bianca e che di solito significa comunque essere ammazzato. In Puglia, in quella regione ricca, bella e organizzata, che con il Far West ha in comune soltanto l’essere chiamata «la California del Sud». E non si ammazzano neanche tra di loro e basta, dal momento che nell’ultima strage, oltre a due uomini ritenuti parte di un clan criminale ci sono due contadini che passavano semplicemente di là e hanno visto quello che non dovevano vedere, e che così si aggiungono ai più quaranta nomi di pugliesi letti ogni anno tra più di novecento nel Giorno della Memoria e del Ricordo delle vittime innocenti per mafia. Perché per quanto tecnicamente sia giustissimo chiamarle faide, di questo comunque si tratta.

Guerre di mafia. Eppure, non è che quello che sta accadendo in parte della Puglia, e mica solo dalla fine dell’anno, abbia suscitato tanto scalpore. O almeno, non abbastanza, perché chi le cose le vive direttamente se ne è accorto da un pezzo e di denunce e iniziative anche istituzionali ce ne sono state, ma a me sembra, appunto, non abbastanza. In una regione ricca e piena di interessi, quando la criminalità organizzata spara e ammazza dovremmo immediatamente pensare ad obbiettivi che fanno paura e invece pare che a livello nazionale, dall’opinione pubblica ma anche da parte delle istituzioni, la situazione venga percepita come la normale fisiologia di una mafia minore, già sconfitta a suo tempo.

Mafia minore. È così che è sempre stata considerata la mafia pugliese, la cosiddetta Sacra Corona Unita, nonostante le decine di morti ammazzati, le bombe, le stragi da film di gangster come quella del Circolo Bacardi di Foggia nell’86, la testa mozzata di Nicola Laviano fotografata e mostrata in giro, i miliardi – prima di lire e poi di euro – derivati dai traffici e dal controllo di attività illecite ma anche lecite, almeno apparentemente. Una mafia giovane, nata artificialmente in carcere e colonizzata dalle cosiddette mafie maggiori, Cosa Nostra, Camorra, ’Ndrangheta. Mafia minore, insomma. E forse sta anche qui la mancanza di attenzione attuale ad un fenomeno che avrebbe dovuto farci paura da un pezzo, ancora prima che arrivassero – solo tra gli ultimi – due fratelli che passavano di lì per caso con il loro furgoncino, e uno dei due, che corre disperato inseguito dai killer per i campi, come il giudice Rosario Livatino ad Agrigento. Perché alle mafie, dal punto di vista mediatico ma anche politico, succede quello che accade ai delitti di cronaca. Ce ne sono alcuni più «fortunati» – tra virgolette – che per il tipo di vittima o di assassino, per il luogo o il momento in cui sono avvenuti, colpiscono l’immaginazione, si guadagnano un nome – Cogne, via Poma, la strage di Erba – ed entrano a far parte di una narrazione mediatica che va oltre le inchieste e le motivazioni delle sentenze.

Cosa Nostra è un vero e proprio marchio internazionale e basta pronunciarlo per pensare ad una serie di cose che vanno dalla Trattiva alle stragi al sigaro cubano di Luciano Liggio e al Sacco di Palermo, passando per «Il Padrino», gli orrendi ristoranti spagnoli che utilizzavano il nome della Mafia e al piccolo Santino Di Matteo sciolto nell’acido. Un mondo, col quale abbiamo una familiarità che fa subito scattare un immaginario, con tutte le informazioni, le sensazioni e le emozioni che si porta dietro.

Prima di Gomorra e di Roberto Saviano, per esempio, c’era a Casal di Principe una mafia sconosciuta e totalmente oscurata da una star del crimine come Cutolo, che nessuno avrebbe potuto nominare neanche uno dei suoi boss. Oggi Sandokan Schiavone, per esempio, lo conosciamo tutti, e la pericolosità pervasiva e massiccia dei Casalesi, anche questo vero e proprio marchio di fabbrica, ci fa abbastanza paura.

Ora, non è che bastino gli scrittori a cambiare il mondo, la mafia pugliese è anche stata raccontata da film come «Galantuomini» di Edoardo Winspeare o da romanzi come il bellissimo «L’estate fredda» di Gianrico Carofiglio, solo per citarne alcuni, ci sono stati processi e inchieste – tra cui quelle dello stesso presidente della Regione, Michele Emiliano – che veramente l’hanno quasi sconfitta, ci sono stati articoli e saggi, eppure quello che sta accadendo adesso in Puglia a me sembra non abbia ancora la visibilità e la concreta inquietudine che merita. Sono io che mi sbaglio? Per mia personale e banale disinformazione, per esempio?

Insomma, cosa sta succedendo nella bella, ricca e organizzata Puglia – aggettivi che uso con affetto e convinzione- una fisiologica attività criminale? Morti che fanno male come tutti i morti ammazzati, ma che restano nell’ambito di una «faida»? O una inquietante, pericolosa e ancora non compresa guerra di mafia?

(fonte)

“Considerata troppo a lungo di Serie B”: Roberti sulla mafia foggiana

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Il procuratore parla di “difficoltà ad investigare” e spiega come i traffici di droga con l’Albania siano il legame da spezzare per disturbare i clan. Il Comune di Foggia – spiega – non si è costituito parte civile in un importante processo che si è recentemente celebrato contro i clan: “Un segnale estremamente negativo che va stigmatizzato”
Il procuratore nazionale Antimafia lo dice senza giri di parole, il giorno dopo la strage di San Marco in Lamis: “La criminalità pugliese e in particolare questa efferatissima forma di criminalità foggiana, è stata considerata troppo a lungo una mafia di serie B“. Intervenendo nella trasmissione 6 su Radio 1, il magistrato ha spiegato che le faide tra clan nel Foggiano vanno avanti da 30 anni e “ci sono stati 300 omicidi, l’80% di questi è rimasto impunito”.

Solo da gennaio ad oggi sono stati 17, ai quali bisogna aggiungere almeno 2 casi di lupara bianca, l’ultimo risalente allo scorso maggio quando è scomparso nel nulla Pasquale Notarangelo, nipote del presunto boss Angelo ‘Cintaridd, ammazzato nel gennaio 2015, e figlio di Onofrio, tra i primi caduti del 2017 nella guerra di Vieste. Roberti, inascoltato, aveva ribadito un concetto simile già ad aprile definendo “quarta mafia” quella foggiana.

Il numero di omicidi irrisolti, spiega Roberti, “la dice lunga sulle difficoltà di investigare”. “Oggi lo scontro si è acceso attorno al traffico di stupefacenti, in particolare di droghe leggere dall’Albania. Un affare colossale che scatena gli appetiti dei clan e che investe, partendo dal foggiano, tutta la dorsale adriatica fino all’Europa. La mafia foggiana è una costola della camorra napoletana – ha spiegato il procuratore nazionale Antimafia – Negli ultimi tempi sono state rafforzate le strutture investigative sul territorio e credo che si procederà oltre. Ad aprile scorso è stata aperta una sezione del Ros a Foggia che mancava, la Procura distrettuale di Bari si prodiga moltissimo per coordinare le indagini”.

Nelle prossime ore, il ministro degli Interni Marco Minniti presiderà il comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza in Prefettura a Foggia e poi incontrerà i sindaci dei Comuni coinvolti nelle faide che stanno insanguinando il territorio. La prima risposta – secondo quanto trapela – sarà proprio il raddoppio della struttura investigativa Anticrimine. Del resto, anche la presidente della Commissione Antimafia, Rosy Bindi, aveva spiegato come “nelle nostre missioni in varie zone d’Italia abbiamo registrato due criticità, una delle quali riguarda Foggia, dove ci è stato sottolineato il problema di immettere personale che abbia la capacità di leggere problematiche che prima non c’erano”. Investigatori ancora più numerosi – e specializzati – per contrastare l’escalation degli ultimi mesi.

“Servono più presidi di polizia, più professionalità nelle forze di polizia. Bisogna mandare in quel territorio il meglio delle professionalità investigative, lo ha detto recentemente la presidente della Commissione Antimafia – ha ricordato Roberti a Radio 1 – e io lo condivido perché se questa è una priorità, è non c’è dubbio che il contrasto alla criminalità foggiana sia una priorità assoluta, allora bisogna mettere in campo il meglio delle risorse”.

Allo stesso tempo, restano problemi strutturali. Come aveva spiegato ilfattoquotidiano.it a marzo, la Procura di Foggia, dove si fanno i salti mortali per star dietro ai delitti di mafia e a una microcriminalità diffusa, conta 18 sostituti procuratori e due aggiunti. Diciotto sostituti contro 28 clan criminali e circa 8-900 affiliati, secondo le stime del ministero dell’Interno risalenti alla primavera 2015. E invece dovrebbero essere in 22 a sorvegliare sulla Società foggiana e sulla mafia del Gargano. Quattro in meno, dunque, per controllare tutta la provincia più Margherita di Savoia, Trinitapoli e San Ferdinando di Puglia, comuni che appartengono alla provincia BAT ma ricadono sotto la giurisdizione della procura foggiana. A conti fatti vuol dire circa 700mila persone, oltre a circa 30mila irregolari. E la Direzione distrettuale Antimafia è a Bari, oltre cento chilometri di distanza.

“Naturalmente bisogna fare di più, anche sul piano della cooperazione internazionale per frenare i fiumi di droghe leggere che arrivano dall’Albania perché sono quelli che stanno scatenando la faida. Siamo andati in Albania nei mesi scorsi a chiedere cooperazione, abbiamo incontrato a Roma il Ministro degli Interni albanese che ha promesso maggiore collaborazione – ha aggiunto Roberti – Bisogna vincere l’omertà e per farlo bisogna creare una cultura della legalità che in quel territorio è ancora molto latente. Il Procuratore capo di Bari, Giuseppe Volpe, fa benissimo a invocare maggiore collaborazione da parte dei cittadini”.

Nelle scorse ore, Daniela Marcone, foggiana e vice-presidente nazionale di Libera, ha parlato a ilfattoquotidiano.it di “nuova resistenza” della società civile, necessaria per sconfiggere i clan. E anche secondo il procuratore nazionale Antimafia “con il massimo sforzo da parte dello Stato, io sono convinto che arriverà anche la collaborazione dei cittadini perché senza collaborazione dei cittadini purtroppo non si va molto lontano”, ha concluso. Non prima di aver ricordato come nell’ultimo processo “importantissimo che si è celebrato a Foggia, condotto dalla Procura Distrettuale di Bari per una catena enorme di estorsioni, purtroppo non si è registrata la partecipazione della società civile. Il Comune di Foggia non si è nemmeno costituito parte civile del processo e questo è un segnale estremamente negativo che va stigmatizzato”.

Mafia del Gargano: l’appello della cognata dei due agricoltori uccisi durante i funerali: “La mafia è connivenza, è girare la testa dall’altra parte. Non abbassate lo sguardo”

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La donna, insegnante di Lettere, ha lanciato un accorato appello rivolto soprattutto ai giovani, futuro del Paese. “Questa realtà ci appartiene: non abbassate lo sguardo. Luigi e Aurelio ne sono stati travolti e con loro tutti noi”
“La mafia è connivenza: è girare la testa dall’altra parte. Voi non abbassate lo sguardo”. Risuona forte l’appello nella chiesa Santissima Annunziata di San Marco in Lamis, in provincia di Foggia, durante i funerali di Aurelio e Luigi Luciani, i due fratelli contadini uccisi probabilmente perché “colpevoli” di aver assistito all’agguato contro il presunto boss Mario Luciano Romito. A pronunciarlo è la cognata delle vittime che dall’altare ha lanciato un accorato appello rivolto soprattutto ai giovani, “sogno e speranza” del futuro. “Da insegnate ho sempre spiegato la mafia – le parole della donna, professoressa di lettere – Ho cercato di farvi capire ma abbiamo sempre studiato una realtà che sembrava non appartenerci. No ragazzi miei, questa realtà ci appartiene”.

“La mafia è qui, serpeggia nei nostri ambienti: cruda, cieca e silenziosa – continua l’insegnate – La mafia è connivenza. La mafia è girare la testa dall’altra parte. Voi non abbassate lo sguardo. La mafia è un atteggiamento subdolo. La mafia non ha la pietas degli antichi eroi che rendevano onore ai propri avversari. La mafia insegue. La mafia crivella di colpi. La mafia uccide chi aveva l’unica colpa di essere in quel momento al lavoro. E Luigi e Aurelio ne sono stati travolti e con loro tutti noi”. Le parole forti seguono l’appello del ministro Marco Minniti che ieri aveva chiesto una “rivolta morale” per sconfiggere la mafia foggiana.

Una situazione, quella sul Gargano, in cui non è semplice mettere ordine, dove le mafie sono rafforzate dall’omertà anche della popolazione, stigmatizzata in una recente relazione della Dia. Un connubio micidiale quello tra mafia e omertà che, come scrive la Direzione nazionale antimafia nell’ultima relazione, ha portato a un “capillare controllo del territorio” da parte di un’organizzazione criminale “moderna e flessibile”, proiettata verso il “modello di mafia degli affari”, ma che trae “la sua forza dalla capacità di coniugare la sua proiezione più avanzata con i tradizionali modelli culturali del territorio, primo tra tutti l’omertà”.

Ed è proprio contro “quel girare la testa dall’altra parte” che si è schierato ieri il ministro dell’interno al termine del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica a Foggia, invitando gli stessi cittadini alla rivolta morale. “La lotta contro le mafie è una grande battaglia di civiltà – ha spiegato Minniti – E naturalmente su questo fronte è molto importante coinvolgere l’opinione pubblica, avere cioè un partecipazione attiva della gente ed è per questo che io oggi ho voluto ascoltare i sindaci e i loro consigli. E a loro ho chiesto di essere parte attiva, perché serve una sorta di rivolta morale nelle popolazioni di questa Provincia”.

(fonte)

I vicini insorgono: lo striscione antimafia “deturpa” il palazzo del boss

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C’è un reato che non è reato. Si consuma sottovoce. E chi lo commette non se ne rende nemmeno conto: è il cretinissimo favoreggiamento sociale alla mafia. Un reato che difficilmente verrà mai scritto ma che, in un Paese normale, dovrebbe essere censurato dal senso di opportunità.

Siamo a Bitonto, non molto lontano da Bari. Qui la mafia si fa sentire e inevitabilmente alcuni dei suoi beni sono stati confiscati (evviva!) e riassegnati a uso sociale (evviva di nuovo): rea questo c’è un appartamento di un condominio in via Muciaccia, sarà la base di un progetto di vita autonoma per cinque ragazzi disabili. Cose belle, insomma.

I nuovi inquilini di Libera hanno pensato bene di appendere uno striscione. Una cosa semplice: “Ieri mafia, oggi Libera, domani liberi”.

Ma i vicini di casa, quelli dello stesso condominio, hanno pensato bene di lamentarsi. Alcuni sottovoce mentre altri sono andati direttamente in municipio per manifestare tutto il loro disappunto. Mica per la mafia, no: per lo striscione. “Danneggia l’immagine della palazzina”, hanno detto i focosi inquilini, preoccupati più di non infastidire i mafiosi che altro.

“Certamente i condòmini che si sono lamentati non appartengono a famiglie mafiose, ma evidentemente non hanno apprezzato tutta quella pubblicità involontaria. Che invece è stata utile – commenta il referente pugliese di Libera – in modo che il territorio sapesse che lì si stava facendo un campo di Libera e che quello è un bene confiscato. Abbiamo spiegato che non volevamo creare problemi, ma in fondo parliamo di un telo che è stato lì per due giorni, volevamo dare un segno al territorio. Purtroppo questa è la conferma che molti italiani provano fastidio ad avere fastidio”.

Ecco qui. Ecco tutto.

Buon lunedì.

(continua su Left)


«La mafia foggiana è mafia. Punto. Almeno a questo sarà servita la morte di due innocenti. Niente più giri di parole.»

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Giuliano Volpe per Huffington Post:

 

La mafia foggiana è mafia. Punto. Almeno a questo sarà servita la morte di due innocenti. Niente più giri di parole. Da anni c’è chi ne parlava e veniva accusato di infangare la Capitanata (come se non fosse la mafia a spargere fango e qualcosa di molto più puzzolente e putrido nel contesto sociale, economico e politico locale).

Basta con tentativi di edulcorare e sottovalutare. Basta con forme, anche involontarie (ma a volte purtroppo volontarie), di vicinanza, di accondiscendenza, da parte della politica (i voti della mafia fanno comodo!) e dell’economia (meglio pagare il pizzo che avere fastidi!). Serve innanzitutto un’azione di polizia più efficace, soprattutto dal punto di vista investigativo, oltre che repressivo. Ma serve un’azione più sotterranea, più lenta, più lunga, sistematica di costruzione dal basso di una coscienza civile, di legalità diffusa (a tutti i livelli, anche quelli apparentemente ‘insignificanti’, come la cura del decoro di una città). Un’azione che coinvolga tutti, nessuno escluso, e che deve vedere in prima linea il mondo della scuola, dell’università, della cultura.

Serve la costruzione di una classe politica più colta e con una visione progettuale (ovviamente onesta, ma l’onestà da sola non basta; è solo un requisito prepolitico, ma insufficiente, checché ne dicano alcuni che la sbandierano come la soluzione di tutti i mali; un medico onesto ma incompetente potremmo sceglierlo come amico ma certo non lo sceglieremmo per farci curare). Servono rimedi radicali con un forte impatto, ma anche pillole quotidiane di cultura, di civismo, di cura degli spazi comuni per guarire una malattia cosi profonda.

Alcuni questo lo fanno da anni, a volte isolatamente e in silenzio. Chi organizza iniziative di cultura, di sport, di socializzazione, per tutti. Chi insegna nelle scuole e nell’università tra mille difficoltà. Chi si impegna per gli ultimi. Chi ha deciso di restare e di lottare. Chi recupera un edificio abbandonato nel centro storico o un pezzo di parco cittadino strappandolo al degrado, allo spaccio, alla microillegalità e lo restituisce a nuova vita e ai cittadini, purtroppo spesso nel disinteresse delle istituzioni. Chi costruisce occasioni di lavoro e di economia sana, pulita, valorizzando il patrimonio locale e non consumandolo e distruggendolo. E tanti tanti altri. Ecco, servirebbe un maggior sostegno a queste iniziative, a queste associazioni, a queste organizzazioni, a queste persone. E come scriveva Calvino nelle Città invisibili, bisogna riconoscere “chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

E forse, in questi giorni, qui a Foggia, in Capitanata, le parole di Calvino sono quelle che rendono meglio cosa serva: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”

 

Mantova: a Viadana (al Plaza Cafè) l’aperitivo lo serve la mafia

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Stop al bar di piazzale Libertà. La bacchettata non arriva dal Comune di Viadana, che non ha ancora ultimato la pratica dello sfratto, ma dalla Prefettura di Mantova. Sulla società Plaza srls che gestisce il locale di proprietà dell’amministrazione comunale, palazzo di Bagno ha emesso l’interdittiva antimafia. La Prefettura ha firmato il documento dopo una riunione del tavolo interforze in cui sono state presentate dai carabinieri carte che raccontano i legami tra la società e personaggi legati alla ’ndrangheta. Legami tali da non poter essere ignorati. L’interdittiva, firmata l’ultimo giorno di luglio, è stata notificata questa settimana al Plaza, al Comune di Viadana, e mandata alla Procura di Mantova, alla Dda di Brescia, e a tutti gli enti previsti dalla legge.

I veleni cominciano a scorrere in piazzale della Libertà nel novembre 2014, quando il commissario prefettizio Isabella Alberti scioglie il contratto con l’Ati Coevit Stone Service per la mancata…

A questo punto pare logico aspettarsi che anche all’ultimo piano del palazzo di giustizia di via Poma ci sia un fascicolo aperto sulle vicende di piazzale Libertà. Una bastonata senza precedenti che va a mettere la parola fine alla melina tra l’amministrazione di Giovanni Cavatorta e la società, costituita con un capitale sociale di 100 euro, di cui sono titolari al 50% Nicola Mungo 41enne originario di Catanzaro residente a Boretto, e per la quota restante Luigi Avantaggiato, 42enne nato in Svizzera e domiciliato nel Leccese. Se Avantaggiato è un personaggio praticamente sconosciuto a Viadana, dove non lo si vede quasi mai, tutt’altra risonanza ha invece il nome di Mungo. Era infatti il gestore del bar MyMo di via Circonvallazione Fosse, punto di ritrovo abituale della comunità di calabresi che vive a Viadana. Il MyMo, per inciso, era di proprietà della società Magia srl, la cui sede legale, in via De Pioppi, coincide con l’abitazione della moglie di Francesco Riillo, fratello di Pasquale arrestato nell’ operazione Aemilia, ritenuto un affiliato della cosca degli Arena. Impossibile pensare a una coincidenza.

Riillo è solo il primo nome allarmante per gli inquirenti. Il secondo è quello di Michele Pugliese, eminenza grigia della famiglia sempre legata alla cosca Arena che a Viadana aveva trovato il suo Bengodi, prima del colpo inferto dalla Dda tre anni fa con il sequestro di tutti i beni, alcuni dei quali, appartamenti e garage, proprio a Viadana. Nicola Mungo è cugino di Salvatore Mungo, condannato in primo grado nell’operazione Zarina perché considerato il prestanome di Pugliese, e sua moglie è imparentata con i Giardino, altra famiglia di spicco della ’ndrangheta. Sul Plaza Cafè pesa un’altra ombra. A compilare le pratiche per l’avvio dell’attività del bar, nel 2014, è stato Luigi Serio, il geometra di origine cutrese ex dipendente della società del pentito Giuseppe Giglio finito in cella nell’ambito dell’inchiesta Aemilia. Evidentemente era già impegnato in altre attività, perché secondo i tecnici che hanno preso in mano la pratica dopo di lui, aveva sbagliato tutte le piante e le misurazioni, che altri geometri hanno dovuto rifare da capo dopo la bocciatura delle verifiche. Ora, in attesa di un prevedibile ricorso, la società Plaza srls dovrà lasciare, nei tempi, molto brevi previsti dalla legge, il bar di piazzale Libertà e non potrà più avere contatti con amministrazioni pubbliche.

(fonte)

Il pentito al cubo: il falso pentito Giuseppe Tuzzolino

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(Marco Bova per Il Fatto)

“La vera vittima delle propalazioni del collaboratore di giustizia Giuseppe Tuzzolino è proprio la giustizia”. Il gip del tribunale di Caltanissetta, Antonia Leone, non ha dubbi: l’ex architetto agrigentino arrestato agli inizi di agosto con l’accusa di calunnia è un “bugiardo patologico. Il lavoro della Squadra Mobile nissena ha azzerato l’attendibilità del pentito, architetto massone originario di Agrigento, che da almeno cinque anni collabora con i magistrati di mezza Isola impegnati nelle inchieste su mafia, massoneria e sulla latitanza del boss Matteo Messina Denaro. Dichiarazioni clamorose, che hanno puntato il mirino contro insospettabili, accusando magistrati e legali di essere corrotti e collusi. Racconti che hanno obbligato gli inquirenti a fare perquisizioni e sequestri. Tutto puntualmente rilanciato dalla stampa, comprese le informazioni, “ritenute false“, sui presunti progetti di morte già pronti per assassinare alcuni magistrati.

L’inchiesta della procura nissena, scrive il gip, ha “raggiunto la prova totaledell’infondatezza delle propalazioni accusatorie di Tuzzolino”. Dietro al castello di false dichiarazioni si celerebbe il tentativo di schermare dei capitali in un paradiso fiscale. Tuzzolino, che aveva già patteggiato un anno e dieci mesi di reclusione per truffa, turbativa d’asta e falso ideologico, di sé, rivolgendosi alla moglie (che lo ha denunciato per violenze), dice (mentre gli investigatori lo intercettano): “Vinco sempre io. È un destino. Sono fatto così. Sono nato per vincere” e ancora “ho pensato un colpo da maestro, ma io sono un mago”. Continuando al telefono con la consorte, a un certo si rammarica persino di aver “dimenticato di dire alla dottoressa Principato che Gianluca Vacchi (il noto imprenditore e personaggio social, ndr) fosse un mafioso“. Adesso il falso pentito si trova in galera, in isolamento, e sul suo status giudiziario a breve la Commissione centrale dovrà esprimersi per confermare o meno la protezione. Dalle sue dichiarazioni sono nati oltre 34 procedimenti “tutti conclusi – dice Francesco Lo Voi, procuratore capo di Palermo ascoltato come teste – con richiesta di archiviazione, in parte accolti e in parte ancora pendenti dinanzi ai giudici». Per i magistrati di Caltanissetta sarebbero fasulle le dichiarazioni rese sugli attentati progettati contro i magistrati Marcello Viola, Marco Verzera (all’epoca entrambi in servizio a Trapani), Teresa Principato(fino a pochi mesi fa guidava le indagini sulla ricerca di Matteo Messina Denaro) e Francesco Lo Voi e su presunti favori concessi dall’ex procuratore capo di Agrigento, Ignazio De Francisci, ora procuratore generale di Bologna.

Le indagini si riferiscono a fatti accaduti lo scorso anno: per smontare le dichiarazioni di Tuzzolino, gli agenti della Squadra Mobile hanno analizzato ogni singola dichiarazione messa a verbale dal pentito durante gli interrogatori. Racconti smentiti dalle intercettazioni e soprattutto dai dati sulle cellule telefoniche alle quali si agganciava il suo telefono cellulare. Molti dei particolari citati da Tuzzolino per dare credibilità alle sue “rivelazioni“, tra l’altro, non sarebbero neanche inediti: si trattava di fatti accessibili da fonti aperte.  In pratica informazioni reperibili dai giornali o addirittura dal web rilanciate nei verbali per dare solidità ai suoi racconti. “L’ufficio – scrive il giudice – è stato impegnato per diversi mesi per compiere le doverose attività di riscontro alle dichiarazioni poi rivelatesi del tutto false”.

Tutto comincia quando l’architetto 37enne, dopo aver inviato un curriculum con il suo vero nome, inizia a lavorare in un call center marchigiano. Lì conosce l’avvocato Ennio Sciamanna, noto per aver difeso altri collaboratori di giustizia – tra cui Antonio Mancini, l’accattone della Banda della Magliana – e l’imprenditore Silvano Ascani, sotto processo per il fallimento di una discoteca. Il 30 agosto durante un interrogatorio condotto dall’allora procuratore capo di Trapani, Marcello Viola, e dal sostituto procuratore Marco Verzera, Tuzzolino riferisce che “era in corso un attentato ai danni dello stesso Viola e della dottoressa Teresa Principato”. Ad averglielo rivelato sarebbe stato il legale romano che dopo essersi fatto nominare suo avvocato di fiducia, avrebbe cominciato a fargli confidenze su confidenze. “L’attentato si sarebbe svolto in occasione di nuovi interrogatori”, spiega Tuzzolino.  “Viola – secondo il pentito – non era ancora stato ucciso perché Messina Denaro non voleva fare guai ma adesso il latitante si era deciso a farlo perché il magistrato stava dando fastidio al senatore Tonino D’Alì, grosso favoreggiatore della latitanza della ‘testa dell’acqua’(il capo di Cosa nostra ndr)”. Le indagini a carico del senatore D’Alì (Forza Italia) sui rapporti con i Messina Denaro sono note almeno dal 2011: il fatto che Tuzzolino collegasse il parlamentare al boss di Castelvetrano, dunque, non riscontrava in nessun modo il suo racconto.

Quando non arrivano da giornali e siti internet, tutte o quasi le presunte rivelazioni di Tuzzolino avrebbero sempre stessa fonte: l’avvocato Sciamanna. Il legale avrebbe saputo degli attentati progettati da Cosa nostra perché informato da un tale avvocato Siciliano ma tra i due professionisti – lo hanno scoperto gli investigatori – non risulta alcuna traccia telefonica, anche a ritroso nel tempo. Sul punto, però, il falso pentito fa poi una mezza marcia indietro: “Non so riferire quale fosse la fonte di informazione dello Sciamanna, non glielo chiesi mai. Posso solo dire, che per quanto da lui riferitomi, c’era questo progetto omicidiario ordinato da Matteo Messina Denaro e che sarebbe stato realizzato dai Casamonica“. Ma perché questo legale romano avrebbe dovuto sapere quali omicidi avesse in mente Messina Denaro? “Perché Messina Denaro era amico dello Sciamanna”, arriverà a dire Tuzzolino. Il legale romano, in un confronto all’americana con il collaboratore, ha negato ogni accusa. Tuzzolino dice che “Sciamanna ha paura di confessare” ma le indagini della Squadra Mobile smontano ogni dettaglio dei suoi racconti. Dopo il 21 settembre Tuzzolino capisce di essere intercettato e “ad ogni conversazione telefonica con la moglie non perdeva occasioni di tornare ai discorsi raccontati ai magistrati, ‘imboccando’ sistematicamente nozioni alla moglie. Nonostante Tuzzolino la tiri dentro in ogni occasione, lei durante un interrogatorio dice di non conoscere alcun avvocato”.

Tra i falsi presunti attentati c’è n’è anche uno contro il procuratore nazionale Antimafia, Franco Roberti. “Il progetto sarebbe attuale e dovrebbe essere eseguito nei pressi della Dia a Roma, in via Cola di Rienzo. L’attentato avrebbe coinvolto anche il dirigente della Dia che avrebbe accompagnato il Roberti nei suoi spostamenti”. Secondo Tuzzolino, invece, non ci sarebbe stato nessun rischio per il magistrato Nino Di Matteo, che come ha raccontato il collaboratore Vito Galatolo (lui sì considerato altamente attendibile) è stato condannato a morte da Messina Denaro: l’ordine di morte per il pm palermitano non è mai stato ritirato.

Sarebbero false anche le dichiarazioni che Tuzzolino ha messo a verbale sui favoreggiatori della latitanza del boss di Castelvetrano, garantita da ampie coperture composte da colletti bianchi e massoneria. “Con riguardo a Messina Denaro – dice la Principato, ascoltata come testimone dai colleghi di Caltanissetta – abbiamo riscontrato l’esistenza di luoghi (in particolare in Spagna e in Inghilterra) e persone che Tuzzolino riconduce al latitante ma non abbiamo riscontrato contatti diretti fra questi luoghi e queste persone con Messina Denaro”. Sull’ultima primula rossa di Cosa nostra Tuzzolino è un fiume in piena. “L’avvocato Sciamanna mi ha parlato di un’indagine sui conti svizzeri della figlia di Messina Denaro. Mi parlò anche di un indagine a carico di Domenico Scimonelli, a cui era arrivato un finanziamento di 750 mila euro, forse per un’azienda vinicola”. Tutte notizie riportate da articoli giornalistici pubblicati ben prima delle sue dichiarazioni. Il collaboratore fa il nome di un presunto “figlioccio” di Messina Denaro, un tale Massimo. “Sentendo questo nome e il riferimento a un negozio di abbigliamento – dice il magistrato Francesco Lo Voi – mi viene in mente la misura di prevenzione nei confronti dei Niceta e buona parte di queste notizie sono reperibili da fonti aperte”.

“Tuzzolino – scrive poi il gip – non manca di coinvolgere anche operatori del Nop, Nucleo operativo di protezione che vengono accusati, in modo del tutto gratuito, di tenere condotte irregolari, seppur non costituenti reato”. Per denunciare alcuni ufficiali del Nop nello scorso mese di marzo ha contattato la redazione de Le Iene per un’intervista. Non era soddisfatto del trattamento a cui veniva sottoposto. Soprattutto quando l’Ufficio Protezione di Roma aveva disposto il suo trasferimento in un’altra località protetta a lui non gradita. Al limite del surreale, invece, il comportamento tenuto dal falso pentito quando doveva recuperare un piccolo tesoretto che aveva detto di aver nascosto in Liechtenstein. Si tratta di ben 750 mila euro che il collaboratore ha sostenuto di possedere e di custodire in una cassetta di sicurezza presso una banca del paradiso fiscale europeo. Quando l’8 maggio scorso, un maresciallo della Guardia di Finanza gli fece sapere di aver comunicato all’Interpol di Berna, alla Dogana di Vaduz e al Comando Generale di Palermo del viaggio che dovevano fare per prelevare i soldi, Tuzzolino si disse indisponibile a causa di un’operazione chirurgica da realizzare entro pochi giorni. Una pantomima durata quindici giorni: secondo i riscontri degli inquirenti “non era vero che Tuzzolino si trovava ricoverato all’ospedale di Merano (luogo in cui diceva di doversi operare, ndr) come si evinceva dalla cellula censita dalla utenza telefonica a lui in uso nel comune di Bolzano”. Mentiva “per non recarsi a eseguire l’operazione di recupero delle somme di denaro, operazione su cui buon esito appare sin da ora non azzardato esprimere qualche perplessità“.

Cosa unisce i popoli? La droga

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Un pezzo preziosissimo di Guido Olimpio per La Lettura- Corriere della Sera:

Tre storie diverse, tre luoghi diversi. Un solo filo: la droga. Prima settimana d’agosto, Candelilla del Mar, municipio di Tumaco, Colombia, al confine con l’Ecuador. Un rastrellamento militare porta al sequestro di un battello semi-sommergibile. Lungo 17 metri, largo quasi quattro, spinto da motori diesel, probabile meta le coste centro-americane.

Costo di costruzione – artigianale – di circa un milione di dollari. Ai trafficanti, pronti a inzepparlo di coca, rende dieci volte tanto. La merce, con un giro tortuoso e complesso, è destinata all’ insaziabile mercato statunitense. I «narco-sub», come sono stati ribattezzati questi «vascelli», sono solo una delle componenti di un network poderoso.

Fine giugno, costa atlantica francese a ovest di Bordeaux. Una segnalazione al servizio salvataggi comunica che ci sono due gommoni in difficoltà. Partono i soccorsi e una successiva telefonata avvisa che su una spiaggia sono stati visti dei 4×4 vicino a due imbarcazioni appena sbucate dal mare in tempesta.

La facciamo breve: la polizia scopre oltre una tonnellata e mezza di coca, arresta una banda multinazionale composta da greci e moldavi. Il carico è arrivato con una barca a vela partita dal Sudamerica. I magistrati non nascondono la sorpresa per la veloce assistenza legale assicurata agli arrestati da avvocati di lingua greca. Una prova dell’ efficienza della gang.

Primi giorni d’ agosto, porto di Manzanillo, regione del Pacifico, Messico. I marines, con due operazioni distinte, sequestrano 18 tonnellate di precursori chimici. Le sostanze sono giunte nello scalo a bordo di cargo provenienti dalla Cina. Non è proprio una sorpresa. I prodotti sono indispensabili per la produzione di anfetamine, «pillole blu» che sono lavorate e spedite negli Stati Uniti dai cartelli. Infatti le organizzazioni si contendono il controllo dei porti. E in questo caso è evidente come i fornitori siano lontani: i cinesi e, anche, gli indiani.

Chi controlla le porte dingresso può gestire meglio i suoi affari. È una piovra mostruosa. Tagli un tentacolo e ne nasce un altro.

Gli ultimi rapporti affermano che il traffico della droga ha reso nel 2016 tra i 426 e i 652 miliardi di dollari (stima del Global Financial Integrity). Nel dettaglio: la cannabis tra 183 e 287; la coca tra 94 e 143. La Colombia, nonostante gli sforzi massicci, ha visto crescere, nel 2016, la produzione di cocaina: 866 tonnellate contro le 649 del 2015. Ed è incalzata dal Perù, Paese specializzato – come altri – non solo nella «crescita», ma anche nell’ export con una serie incredibile di piste in terra usate da piccoli velivoli, a volte rubati, a volte comprati e affidati a una pattuglia di piloti spericolati. Stesso fenomeno in alcune aree dell’ Argentina e poi nel «solito» Messico.

La Baja California messicana, a sud della famosa Ensenada, è come un aeroporto naturale. Le «strisce» costruite in modo rudimentale diventano un trampolino d’ appoggio per le partite di marijuana, trasferite poi a bordo di Tir o pick up che risalgono fino alla frontiera con gli Usa. In alcune situazioni i banditi piazzano le mattonelle a bordo di altri piccoli aerei.

Dai Piper da turismo agli ultra-leggeri, fino ad arrivare a deltaplani a motore. Atterrano clandestinamente in prati americani. In alternativa «bombardano», ossia sganciano la droga in località stabilite di Arizona e California – con l’ aiuto di dati Gps e riferimenti geografici – e poi tornano indietro. Missione facile, ma anche ad alto rischio.

Qualche volta si schiantano e la possibilità di rimetterci la pelle è alta. Ai committenti importa poco. Con i numeri che abbiamo citato si comprende il motivo. La materia prima non manca, come i clienti. Avendo tanti soldi a disposizione è altrettanto rapido trovare chi si prende tutti i rischi. Legge «economica» che troviamo in Afghanistan e in certi quadranti africani.

È evidente come spesso l’ elemento narco si mescoli alla politica. Formazioni guerrigliere diluiscono o dimenticano l’ ideologia, rimpiazzandola con il crimine puro. Pensiamo alle Farc in Colombia, agli irriducibili di Sendero Luminoso in Perù. Si adattano, mutano le priorità, spingono sul contrabbando. Proprio gli insorti colombiani hanno avuto un ruolo nello sviluppo dei cosiddetti semi-sommergibili.

L’ onda lunga è devastante, porta il veleno e restituisce relitti. Il boom di eroina in alcune città americane ha conquistato le pagine dei grandi media e spinto molti a lanciare l’ allarme sulle conseguenze. Nel Sud della Francia la lotta tra «famiglie» rivali per il controllo dello spaccio è feroce. Tante le vittime, falciate a colpi di Kalashnikov. Il 3 luglio un episodio su tutti.

Un giovane, con precedenti per vicende legate agli stupefacenti, è assassinato in una via di Tolosa. Il killer lo ha sorpreso usando una tecnica irachena: indossava un burqa sotto il quale ha nascosto volto e mitra. La vittima ha cercato di fuggire, il sicario lo ha inseguito e ha aperto il fuoco. Trenta i proiettili.

Storia che ricorda un’ altra, con alcuni ceceni sorpresi da un agguato nel luglio di un anno fa. E Tolosa non è da sola. A Marsiglia va pure peggio, con regolamenti di conti continui, simili a quelli visti in queste settimane a Foggia e nei mesi scorsi in Canada, dove agiscono storicamente alcuni padrini italiani, sbarcati qui da Sicilia e Calabria. Odio antico si è sommato a dispute recenti che hanno tramutato tranquilli quartieri di Montréal in terreni di caccia. In tanti hanno fatto una brutta fine, in particolare esponenti del clan Rizzuto.

È un’ emergenza globale. I boss non vogliono perdere tempo e denaro, investono risorse immense in altri settori, perfettamente legali. Se ti metti in mezzo, ti spianano. Per questo c’ è poca differenza tra un barrio sudamericano e un quartiere difficile europeo.

narcos 4 narcos 4 narcos 2 narcos 2 narcos 1 narcos 1 claudia ochoa claudia ochoa sottomarini dei narcos per portare la droga sottomarini dei narcos per portare la droga narcos 3 narcos 3

La droga accorcia le distanze e le vite..

Palermo, il delitto del mercato: ucciso per uno schiaffo

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Salvo Palazzolo per Repubblica:

Quando ancora Palermo dorme, qualcuno già litiga al Capo. Voci, spintoni, insulti. Due uomini litigano senza esclusione di colpi. E poi, all’improvviso, il silenzio. Pochi attimi prima dell’arrivo di una pattuglia dei carabinieri, inviata dalla centrale dopo una telefonata anonima. Sono le sette, in via Porta Carini ci sono pochissime persone. Il fruttivendolo Andrea Cusimano, uno di quelli che hanno discusso animatamente (ma questo ancora nessuno lo sa), sta aprendo la sua bancarella, che è la prima del mercato. Ha il tempo di sistemare qualche cassetta di ortaggi. Tutto sembra tranquillo, la pattuglia va via. Ma 45 minuti dopo, arriva un giovane robusto, ha una pistola in mano. Cusimano lo conosce, è il figlio dell’uomo che ha affrontato poco prima, con uno schiaffo, racconterà un testimone. È in quel momento che Cusimano comprende di essere diventato la vittima predestinata. E allora prova a scappare fra le bancarelle. Mancano una manciata di minuti alle otto.

Corre, Andrea Cusimano, è un giovane di 30 anni. Non ha scampo. Uno, due, tre colpi di pistola lo stendono per terra. Il sicario si avvicina, forse vuole pure infliggere il colpo di grazia con la sua Lebel calibro 38, una pistola di fabbricazione francese. Quale offesa ha mai fatto quel fruttivendolo? Di sicuro c’è solo che l’esecuzione della condanna a morte decisa nel giro di una manciata di minuti deve essere esemplare. Poco importa che in quel momento ci siano già diverse persone attorno. Commercianti, turisti. Ci sono anche un maresciallo e un appuntato del nucleo Investigativo dei carabinieri, sono in borghese. Inizia un inseguimento fra le bancarelle: l’assassino prova a liberarsi della pistola, lanciandola dentro un deposito. Poi, si infila dentro una Smart nera guidata da un complice, che aspetta in via Volturno. Il carabiniere lo tira fuori a forza. L’auto fugge, ma l’assassino è in manette. È un giovane di 23 anni, Calogero Piero Lo Presti, suo padre è Giovanni, nel 2002 finì in carcere pure lui con l’accusa di aver ucciso un parente, Salvatore Altieri, al culmine di una drammatica lite. In realtà, passò una settimana prima che Lo Cascio fosse individuato, perché i familiari avevano scelto di sacrificare il figlio della vittima pur di salvare il vero assassino. E non è un caso. Lo Presti è un cognome pesante nella geografia di Cosa nostra. Un dato che è subito balzato all’attenzione dei carabinieri. Lo Presti junior è nipote del boss Calogero Lo Presti, uno dei ras di Cosa nostra che comandano su Porta Nuova, ma anche cugino di secondo grado di Tommaso Lo Presti, altro autorevole padrino.

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