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Channel: Antimafia – Giulio Cavalli
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Scrive Bild: “In Germania vivono 562 affiliati a Cosa nostra, ‘ndrangheta a camorra”

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(fonte: Il Fatto Quotidiano)

In Germania vivono 562 esponenti di associazioni mafiose di origine italiana. Lo rivela la Bild, raccontando il contenuto della risposta fornita dal ministero dell’Interno tedesco a un’interrogazione parlamentare dei Verdi. Il numero si è quadruplicato rispetto al 2008 quando in Germania c’erano solo 136 esponenti di quella che Bild chiama genericamente “mafia”.

Notoriamente su suolo tedesco l’organizzazione criminale più presente è la ‘ndrangheta calabrese che in Germania conta 333 affiliati. Segue quindi Cosa nostra, con 124 “picciotti”. Dal 2008 sono 103 le inchieste aperte contro la criminalità organizzata. Le forze dell’ordine hanno recuperato da allora 5,6 milioni di euro.

Ilfattoquotidiano.it ha dedicato alla Germania uno dei focuscontenuti nell’inchiesta sulle mafie unite d’Europa (leggi lo speciale). Una delle principali attività dei mafiosi su suolo tedesco è quella della ristorazione: pizzerie, ristoranti e bar. Questi locali, come hanno dimostrato le indagini congiunte dei Carabinieri del Ros e del Bka dopo la strage di Duisburg, diventano dei veri e propri centri logistici ad ampio spettro, quartieri generali per gli incontri, lavatrici per il denaro sporco nonché snodi per il traffico di armi e droga – soprattutto cocaina da Olanda (vedi Focus) e Belgio. Lo dimostrano le indagini sui super-narcos Sebastiano Signati e Bruno Pizzata, che dirigevano un imponente traffico di cocaina sull’asse, appunto, Olanda-Belgio-Germania. Pizzata, che viveva a Oberhausen, aveva proprio un ristorante come centro logistico, “La Cucina”.

Una fra le più importanti indagini sul riciclaggio di capitali mafiosi in Germania, partita dall’Italia, è l’operazione Scavo del 2013 contro Cosa Nostra agrigentina. L’indagine ha scoperto come un licatese di nome Gabriele Spiteri fosse stato incaricato da Cosa Nostra di gestire la “Baumafia”, ovvero una rete di 430 imprese di costruzioni mafiose (tutte rigorosamente aperte da prestanome) che in Germania costruivano palazzi, ma servivano anche da lavatrici per profitti illeciti milionari. Non era Spiteri – bocciato tre volte alle elementari – l’ideatore di questo sistema. A controllare le sue mosse, come ha rivelato un team internazionale d’inchiesta composto da giornalisti di IrpiCorrectiv e Grandangolo Agrigento, era Angelo Occhipinti, presunto capo-mandamento di Colonia per la mafia agrigentina. Il quale, secondo un ex-killer di Cosa Nostra con cui hanno parlato in esclusiva i giornalisti, prendeva ordini direttamente dai capi-mandamento della Provincia di Agrigento – gli stessi che nel 2012 hanno comandato la lupara bianca per il capo-mandamento di Manneheim dell’epoca, Giuseppe Condello, ritrovato cadavere in un cunicolo di scolo dell’acqua nelle campagne di Palma di Montechiaro. Dopo la risonanza internazionale della strage di Duisburg del 2007, infatti, sia la ‘ndrangheta che Cosa Nostra hanno cambiato tattica: si spara solo sul suolo italiano, così da non rovinare gli affari in Germania.


La provvidenziale morte di “faccia da mostro”

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È morto mentre trascinava la sua barca sulla spiaggia di Montauro, sulla costa ionica cataranzese. Giovanni Aiello muore “da innocente” come si affrettano a dire i suoi avvocati: un malore sulla spiaggia. Forse un infarto, dicono.

Eppure Giovanni Aiello è anche il cosiddetto “faccia da mostro” di cui parlano alcuni pentiti di Cosa Nostra. «C’entra con tutti gli omicidi più strani di Palermo», aveva detto di lui il pentito Luigi Ilardo al colonnello Michele Riccio. Recentemente una nuova “fonte” aveva raccontato ulteriori particolari su di lui alla Procura di Reggio Calabria. Alcuni collaboratori di giustizia l’hanno indicato come elemento di congiunzione tra i servizi segreti e gli uomini di Cosa Nostra (ma i servizi smentiscono) mentre a Palermo è stato indicato come elemento fondamentale nell’uccisione dell’agente Nino Agostino, barbaramente ucciso con la moglie Ida Castelluccio. La scena del riconoscimento da parte del padre dell’agente, Vincenzo Agostino, al tribunale di Palermo è una di quelle che straziano solo a pensarle.

A Reggio Calabria Aiello era  indagato dell’inchiesta “Ndrangheta stragista”, che di recente ha svelato il ruolo dei clan calabresi nella strategia della tensione messa in atto dalle mafie negli anni Novanta con le cosiddette “stragi continentali”, in quel pezzo di storia d’Italia in cui mafie, massoneria e servizi deviati hanno avuto un ruolo determinante nella strategia del terrore.

A luglio, per l’ennesima volta, l’abitazione di “faccia da mostro” era stata perquisita. Nello stesso giorno erano state perquisite anche le abitazioni di Bruno Contrada e  dell’ex agente di polizia Guido Paolilli e dei fratelli Gagliardi di Soverato.

Ora Giovanni Aiello invece è morto. Se n’è andato prima che arrivasse la verità. Come succede troppo spesso, qui da noi. E la verità diventa ancora più ripida.

Buon martedì.

(continua su Left)

«Dalla Chiesa lo abbiamo ucciso tutti noi»: la storica intervista a Sciascia del Corriere della Sera

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L’intervista che leggete è stata pubblicata sul Corriere del 5 settembre 1982. 

«Carlo Alberto dalla Chiesa lo abbiamo ucciso tutti quanti noi indicandolo come l’unico che poteva combattere il terrorismo, come l’unico che poteva combattere la mafia. Ne abbiamo fatto un bersaglio cui qualcuno poi ha sparato».

Comincia così il nostro colloquio con lo scrittore Leonardo Sciascia venti ore dopo l’assassinio del generale dei carabinieri. Sciascia non aveva stabili frequentazioni con il militare, ma ne era rimasto affascinato tanto da trasformarlo nel capitano Bellodi, protagonista de «Il giorno della civetta».

L’incontro avviene nella casa di campagna dello scrittore a Racalmuto, poche migliaia di anime al centro del triangolo della miseria in Sicilia. Sciascia vi trascorre le vacanze in compagnia della moglie, n resto del mondo appare lontano. La notizia dell’assassinio del prefetto di Palermo Sciascia l’ha appresa solo ieri mattina, dodici ore dopo l’agguato.

«Questo assassinio — dice — ha un solo significato ed è l’eliminazione di una singola persona che era diventata un simbolo. Le istituzioni sono tarlate, non funzionano più, si reggono solo sulla abnegazione di pochi uomini coraggiosi. A partire dall’assassinio del vice questore Boris Giuliano, la mafia ha deciso di eliminare questi uomini simbolo. Arrivati a dalla Chiesa, però, mi domando, se non ci sia della follia in chi ordina questi delitti: che cosa vogliono? Qual è il loro obiettivo? Pretendono forse il governo dello Stato? In verità non riesco a capire. Vogliono forse Imporre un ordine mafioso che si sovrapponga a quello dello Stato? Ma questo è impossibile perché livello dei delitti è talmente alto da suscitare una fortissima reazione».

«Io credo – continua Sciascia — che nessuna organizzazione eversiva possa gareggiare con lo Stato in fatto di violenza, anche quando lo Stato appare inefficiente. Anzi, la sua inefficienza, è direttamente proporzionale alla mancanza dt funzionalità. In queste condizioni sfidarlo mi sembra un atto di napoleonismo folle. Ma tutto ciò mi preoccupa perché uno Stato inesistente è sempre capace di approvare una legge sui pentiti e di scatenare una furibonda repressione poliziesca».
«Secondo me la mafia si combatte utilizzando onestà, coraggio e intelligenza e le indagini fiscali illustrate due giorni fa dal ministro Formica mi sembrano un buon inizio. Con questi strumenti la mafia si può debellare.

«Per capire tale affermazione bisogna rifarsi alla tesi classica che voleva la mafia inserita nel vuoto dello Stato, mentre in realtà essa vive nel pieno dello Stato. Credo che dall’istituzione della commissione antimafia in poi, l’organizzazione abbia cominciato a sentirsi esclusa dal pieno dello Stato e ora ha assunto questa forma che potremmo definire eversiva. Ma in effetti appare come un animale ferito che dà colpi di coda».

«Dalla Chiesa, forse — aggiunge lo scrittore —, non aveva intuito tale trasformazione e i pericoli che ne derivavano. Anch’io, peraltro, non credevo che si arrivasse a colpire tanto in alto. Ma in effetti noi tutti conosciamo bene solamente la vecchia mafia terriera. Per il resto tiriamo ad indovinare. Possiamo dire in ogni caso che la mafia è una forma di terrorismo perché vuole terrorizzare la gente. Ma i fini sono sostanzialmente diversi. Di comune c’è una sola cosa e cioè l’attentato alle nostre libertà».

«Ma forse Dalla Chiesa — conclude Sciascia — non aveva piena coscienza di questo fenomeno. Mi meraviglio infatti della maniera con cui è stato ucciso. Quando un uomo arriva alle sue posizioni ha il dovere di farsi proteggere e di farsi scortare bene. Le manifestazioni di coraggio personale possono diventare forme di imprudenza pericolosa. Ciò nonostante mi sgomenta la incapacità della nostra polizia di prevenire. Infatti un attentato ad un uomo come Dalla Chiesa non si improvvisa in quattro e quattr’otto, ma nessuno ne aveva avuto sentore».

Caporalato agropontino: denunce e aggressioni nell’articolo di Marco Omizzolo

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Marco Omizzolo è una delle voci più preparate e autentiche sul fenomeno del caporalato. Questo suo articolo (scritto per Articolo21) è un quadro impietoso della situazione in provincia di Latina che ben racconta come il fenomeno dello sfruttamento non appartenga solo alla Puglia e, soprattutto, come l’emergenza non abbia bisogno di vittime per essere tale.

 

In provincia di Latina per molti giornalisti, ricercatori e attivisti non è facile lavorare. È infatti usanza consolidata di alcuni politici denunciare chi studia e racconta le mafie, la corruzione, l’urbanistica e l’ambiente per ostacolarne il lavoro. Se poi si riprendono, descrivono e raccontano anche i luoghi e i personaggi che praticano lo sfruttamento lavorativo, il caporalato e la tratta internazionale, allora dalle denunce temerarie si passa facilmente alle aggressioni, intimidazioni e minacce. È accaduto, ancora una volta, solo qualche giorno fa.

Il 5 settembre scorso, infatti, come faccio da anni, mi trovavo nelle campagne pontine a documentare, intervistare, raccogliere storie di vita di braccianti indiani per approfondire il tema dello sfruttamento lavorativo ad opera di alcuni imprenditori e caporali. Un lavoro affascinante e difficile, scomodo e spesso battistrada per individuare una serie di interessi criminali e metodi in sé mafiosi. Molte ricerche scientifiche e giornalistiche, italiane e straniere, ormai concordano nel riconoscere lo sfruttamento lavorativo, soprattutto quando associato ai migranti, insieme al caporalato e alla tratta internazionale, espressione di una criminalità più o meno dipendente dalla consorterie mafiose tradizionali.

Con me questa volta si trovava una troupe della Bbc, network tra i più importanti al mondo composta da Rahul, giornalista peraltro di origine indiana, e dal suo operatore, e Floriana Bulfon, giornalista de L’Espresso che sul grave sfruttamento lavorativo dei lavoratori indiani ha già pubblicato importanti inchieste, lì in veste di interprete.

Una combinazione di professionalità di livello internazionale e, grazie anche alle origini del giornalista della Bbc, che si è subito confrontata non solo con le testiminianze dei lavoratori da anni sfruttati da padroni italiani, caporali e trafficanti spesso loro connazionali, ma anche con le reazioni, minacce e intimidazioni di chi si ritiene legittimato a sfruttare e a non dar conto dei propri comportamenti.

Giunti intorno alle 09.00 del mattino a ridosso di un campo agricolo, restando sulla strada pubblica e dunque senza invadere proprietà privata alcuna, Rahul e il suo operatore iniziano a riprendere un gruppo di lavoratori indiani chini sui campi. Nulla di particolare, nulla di ambiguo. Una telecamera a ripredere ciò che nelle campagne pontine tutti vedono ogni giorno. E poi un giornalista che racconta la giornata di un lavoratore indiano, descrive quelle condizioni, non esprime giudizi ma approfondisce, come deve, ciò che nei giorni precedenti aveva raccolto in termini di informazioni mediante interviste fatte agli stessi lavoratori come anche ad alcuni rappresentanti istituzionali e delle forze dell’ordine.

Tanto però è bastato per essere fermati subito da un ragazzo italiano, probabilmente il padrone del campo e datore di lavoro di quei lavoratori. Dovevamo, secondo lui, interrompere le riprese. In pochi secondi siamo stati raggiunti anche da un’auto dalla quale è scesa una donna che ha subito fotografato la nostra auto (presa a noleggio) e chiesto spiegazioni, peraltro prontamente fornite con tanto di esposizione dei documenti e tesserini da giornalista. La tesi era “voi non potete riprendere senza il nostro permesso, non potete fare domande, i lavoratori sono tutti in regola, dovetre andare subito via o vi denuncio….ora chiamo i carabinieri”. Intanto sono arrivate altre due auto che parcheggiano a poca distanza da noi dalle quali scendono due uomini. Capiamo che rischiamo di restare lì tutto il giorno e decidiamo di andare via evitando di cadere nelle provocazioni. Riprendiamo a girare per le campagne di Sabaudia e dopo soli dieci minuti veniamo fermati un’altra volta. In questo caso ad intimarci l’alt è la polizia municipale di Sabaudia. Accostiamo sul ciglio della strada. Alla nostra destra e sinistra solo campi pieni di lavoratori indiani piegati a raccogliere. Accanto a loro, in piedi, qualche italiano e altri indiani. I primi erano i “padroni” e i secondi i “caporali”. Ci sarebbe piaciuto intervistarli ma non è stato possibile per il prontissimo intervento della celere municipale. Bene, è dovere loro controllare e lo fanno con attenzione certosina. Ci chiedono i documenti. Ognuno presenta il proprio, compresi i tesserini da giornalisti. La telecamera intanto riprende i braccianti indiani piegati nei campi e i caporali che ridono. I controlli sono così accurati che non so se esserne lieto o demoralizzarmi. Il vigile annota tutto con scrupolosità: i nostri nomi, i numeri dei nostri documenti, il contratto di noleggio dell’auto, l’effettiva revisione della stessa, l’assicurazione e infine guarda se l’auto ha qualche problema. Alle sue domande rispondiamo con educazione mista ad ironia, forse per alleggerire la tensione. Intanto l’operatore, di origine egiziane e con una lunga esperienza internazionale, ci dice che neanche quando è stato in Egitto, Libia o in Siria gli era mai capitato di vivere una tale situazione. Ma è solo l’inizio. Il vigile ci comunica che tanta solerzia è dovuta al pericolo terrorismo. La sua attenzione è indispensabile perchè “è un periodo difficile e il pericolo di attentati può esserci ovunque”. Un po’ la cosa fa ridere, un po’ invece no. Intanto alla sua destra e sinistra i lavoratori indiani continuano a lavorare sotto padrone e caporale. Padrone e caporale che dovrebbero essere perseguiti, addirittura arrestati, stando alla recente nuova legge contro il caporalato (lex 199/2016). Loro invece restano lì, in piedi, a controllare il lavoro dei braccianti, a chiedere loro di fare più in fretta per una retribuzione oraria che non arriva ai 4 euro (nella migliore delle ipotesi) a fronte dei 9 lordi circa che la legge prevede. Non vengono rispettate le misure a tutela della loro salute. Lavorano anche 12 ore, con pause brevi. Il datore di lavoro in alcuni casi si fa chiamare padrone. Il caporale li insulta. Se un lavoratore indiano si infortuna viene allontanato o portato in prossimità di un Pronto Soccorso e poi abbandonato. Abbiamo decine di referti di aggressioni o malatti legate allo sfruttamento. Ma il vigile, giustamente, controlla la revisione della nostra auto e il contratto di noleggio quale strategia per contrastare il terrorismo internazionale. Il giornalista della Bbc ride, io un po’ meno.

Finito ogni controllo, pensiamo di andare via. L’aria si è fatta pesante. In solo un’ora siamo stati avvicinati da vari datori di lavoro, presi in giro da caporali e padroni, controllati dalla polizia municipale. Ci pare abbastanza.

Decidiamo di trovare una location adatta per farmi intervista. Suggerisco il Mof di Fondi, ossia uno dei maggiori mercati ortofrutticoli d’Europa. Già al centro delle cronache giudiziarie e giornalistiche d’Italia, il Mof è il luogo ideale in cui raccontare il rapporto tra mafie, sfruttamento lavorativo, tratta internazionale e caporalato. Proprio in  prossimità dell’entrata di quel Mercato si ritrovavano, come ho già avuto modo di scrivere per Articolo21, Gaetano Riina, fratello di Totò Riina, e Nicola Schiavone, figlio di Carmine Schiavone detto Sandokan, tra i fondatori del clan dei Casalesi. Le indagini portarono alla luce il sodalizio criminale tra i casalesi, i Mallardo e i corleonesi per la gestione di vari mercati ortofrutticoli dalla Sicilia a Fondi. I clan campani fungevano da service per trasporti e logistica mentre i mafiosi siciliani fornivano i prodotti agricoli con il beneplacido interessato della ‘ndrangheta. Camion che trasportavano ufficialmente la frutta e la verdura prodotta nelle campagne pontine dai braccianti nascondevano e trasportavano anche armi, droga e forse anche denaro frutto di rapine, estorsioni e traffici illeciti di varia natura.

Prima di arrivare spiego la storia criminale del pontino che ho provato a ricostruire, almeno per una parte della sua genesi, con una mia recente pubblicazione (http://www.tempi-moderni.net/prodotto/la-quinta-mafia/). Gli racconto delle estorisioni, delle mancato scioglimento dell’amministrazione comunale di Fondi, della reazione della politica al potere, dei silenzi e dell’operato lodevole delle forze dell’ordine della magistratura. In auto c’è silenzio interrotto da qualche battuta per stemperare la tensione.

Anche in questo caso arriviamo a ridosso dell’entrata del MOF. Restiamo però ancora sulla strada. Parcheggiamo e l’operatore, con Rahul, si posizione su un’aiuola. Si tratta di suolo pubblico. In lontananza si vede l’enorme scritta del MOF. Iniziamo l’intervista. La prima domanda riguarda il mio interesse per le agromafie e lo sfruttamento lavorativo e da qui arrivo all’uso indotto di sostanze dopanti da parte dei lavoratori indiani per reggere i ritmi imposti al lavoro e lo sfruttamento, tutto documentato  da un dossier (Doparsi per lavorare come schiavi) pubblicato da In Migrazione.

Ancora una volta veniamo interrotti. Questa volta è la guardia giurata del Mof. Ci chiede le generalità e lo scopo del nostro lavoro. Siamo ovviamente collaborativi. Floriana è paziente. L’essere una giornalista di giudiziaria de L’Espresso e trattando il tema mafie e terrorismo da anni, riesce a gestire adeguatamente la situazione. La guardia giurata ci ricorda che per stare lì dobbiamo chiedere l’autorizzazione. Non importa se il suolo è pubblico e se siamo distanti dal Mof. Serve l’autorizzazione. Sembra di vivere in un film comico. Avendo saputo che si tratta della Bbc, la guardia chiama la direzione che gli intima di lasciarci lavorare. Sono evidentemente più astuti dei padroni agricoli pontini.

Riprendiamo l’intervista ma dopo due minuti arriva un altro controllo. Si ferma un’utilitaria. Nessun logo sulla fiancata, nessun lampeggiante o titolo in evidenza. Scende un uomo sui 55 anni. Ci sorride e non interviene subito ma ci scatta con il cellulare alcune foto. Io mi fermo perchè avverto quella presenza come inquietante. Floriana gli si avvicina e torna a spiegare, per la quarta volta in due ore, che lei è un’interprete, che si tratta della Bbc (cosa che quest’uomo sapeva già), cosa stavamo facendo e perché eravamo lì. In questo caso la nostra percezione è diversa da quelle passate. Quell’uomo così gentile ferma subito Floriana e le dice che sa perfettamente che lei non è solo un’interprete ma una giornalista. Poi ci spiega, sempre sorridendo, che dobbiamo avere un’autorizzazione sia per stare su quell’aiuola sia per filmare ma che ci concede, bontà sua, di continuare. Floriana lo avverte che non stavamo facendo un servizio sulle mafie nel Mof e lui, astutamente, non risponde. Fotografa però ancora la nostra auto e mi scatta una foto da distanza abbastanza ravvicinata. Non ci dà spiegazioni sulle ragioni della sua presenza, sul suo ruolo e attività. Non è affatto arrogante. Ad alta voce, per farsi sentire distintamente da tutti, dice però di fare attenzione perché “potrebbero improvvisamente attivarsi gli annaffiatoi” e aggiunge che quello in cui eravamo è un posto pericoloso perché passano molti camion. Qualcuno, afferma, soprattutto quando è carico, potrebbe “perdere il controllo e venirci addosso” facendo una strage. Si preoccupa per noi. Floriana ed io restiamo per qualche secondo in silenzio. Continua affermando che quei camion hanno già perduto il controllo in passato salendo varie volte sull’aiuola dove ci trovavamo. Lo informiamo che staremo ancora solo due minuti e lui dalle foto passa al video. Ci riprende qualche secondo e va via, salvo nascondersi dietro una curva dalla quale poteva tenerci d’occhio.

Finisco l’intervista parlando di sfruttamento, doping, mafia, di tratta internazionale, caporalato e del bisogno che abbiamo di giustizia e diritti. L’entrata del Mof è alle mie spalle. Alla nostra destra, lontano qualche centinaio di metri, quell’ometto basso e sorridente che si preoccupava della nostra salute. La minaccia io e Floriana l’abbiamo capita benissimo. Stare attenti e soprattuto stare lontanti, dal Mof, da certi temi, da certi campi.

Torniamo a Sabaudia per continuare il nostro lavoro, ben sapendo che esistono interessi e luoghi che non devono essere ripresi ma che proprio per questo, ne siamo convinti, meritano di essere descritti, indagati, studiati.

La sensazione che si vive è di pressione e ostacolo costante al nostro lavoro da parte di chi sfrutta, di criminali vari, di alcune istituzioni che sembrano refrattarie a qualunque impegno volto a ristabilire legalità e giustizia, di personaggi non meno precisati che si sentono così forti da minacciare direttamente un giornalista della Bbc, il suo operatore, una giornalista de L’Espresso e il sottoscritto. Si ha la certezza che lavorare nel Pontino raccontando le storie degli ultimi, degli sfruttati, dei migranti obbligati ad abbassare la testa dinanzi al padrone di turno, procura problemi e intimidazioni. La Bbc ha capito bene come stanno le cose e ad ottobre manderà in onda il servizio a livello mondiale e da Londra a New York, da Calcutta a Roma, tutti vedranno e sapranno. Non c’è stato dunque bisogno di usare troppe parole. È bastato fargli vivere l’esperienza diretta di chi prova a raccontare puntando il dito, l’obiettivo e la penna negli angoli bui di questa provincia dove poco si vede e meno si sa. Poi arrivano padroni, caporali, vigili, guardie giurate e anonimi personaggi sorridenti a domandarti chi sei, cosa fai e soprattutto a raccomandarsi di stare attento alla salute che qui ci vuole poco a farsi male. Intanto tutto intorno braccianti, indiani e spesso anche italiani, si spezzano la schiena per pochi euro al giorno, i caporali comandano, i padroni ordinano e fanno i soldi e i padrini fanno politica e filmini con il cellulare. Ma le cose prima o poi cambiano ed è per questo che continueremo ad analizzare, raccontare e descrivere decidendo ogni giorno da che parte stare e contro chi combattere.

Quello che ha da dire Marco Lillo sul caso Consip (e sul presunto “golpe”)

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E vale la pena leggerlo. Almeno per mettere in fila i fatti.

 

di Marco Lillo

Per smontare il teorema del ‘complotto’ contro Matteo Renzi costruito dal Noe dei Carabinieri con la complicità del pm Henry John Woodcock e del Fatto è molto utile una semplice cronologia.
Quando il capitano Gianpaolo Scafarto, ai primi di settembre del 2016, avrebbe fatto alla pm di Modena Lucia Musti la confidenza generica su un’indagine non meglio precisata (“Scoppierà un casino, arriviamo a Renzi”) erano già accaduti alcuni fatti. In particolare un signore toscano amico di Tiziano Renzi di nome Carlo Russo era già entrato più volte nell’ufficio di Alfredo Romeo per parlare degli appalti che interessavano all’imprenditore. Non solo in Consip ma anche in Grandi Stazioni e in Inps. Stando alle informative di Gianpaolo Scafarto di quel periodo erano già accaduti questi eventi: il 3 agosto Romeo aveva chiesto a Russo di incontrare il padre del premier di allora perché aveva problemi con il suo amico amministratore di Consip, Luigi Marroni, per una serie di appalti del valore di centinaia di milioni di euro. Russo aveva proposto allora di fare una bisteccata a casa di Tiziano Renzi con lo stesso Marroni. Il 31 agosto Romeo era tornato alla carica e Russo aveva riferito così la risposta di Tiziano: “gli ho detto che … dobbiamo fare sto passaggio con Marroni! M’ha detto dice: ‘Fammi finire sto casino prossima settimana ci mettiamo’”.
Quando Scafarto avrebbe fatto la sua profezia, Romeo aveva già proposto a Russo il famoso ‘accordo quadro’ che poi sarà precisato meglio il 14 settembre nel famoso foglio che – secondo l’interpretazione dei Carabinieri – reca l’offerta di 30 mila euro al mese per Tiziano Renzi in cambio di un incontro al mese con Luca Lotti e con Luigi Marroni per propriziare un occhio di riguardo su Romeo da parte della Consip guidata da Marroni.
La confidenza di Scafarto (‘scoppierà un casino arriviamo a Renzi’) quindi non è la prova del movente delle sue macchinazioni contro Tiziano e Matteo ma un annuncio abbastanza prevedibile (e certamente scorretto se vero) sulla base di indizi già raccolti.
Prima però ricordiamo come è nata la teoria che piace tanto ai grandi giornali, alla politica e ai membri del Consiglio Superiore della Magistratura vicini a Renzi.
Il teorema (ben descritto ieri in un pezzo di Carlo Bonini su Repubblica) vuole connettere due fatti che non c’entrano nulla: lo scoop del Fatto del luglio 2015 sulla telefonata di Matteo Renzi con il generale Michele Adinolfi e lo scoop del Fatto del 2016-2017 sul caso Consip. Ebbene il teorema è delineato nel libro del segretario del Pd Avanti.
Renzi ricorda così il nostro scoop della telefonata tra lui e il generale della GdF Adinolfi, nella quale i due sparlavano di Enrico Letta, intercettata nel 2014 e pubblicata dal Fatto il 10 luglio 2015. “È la prima volta – scrive Renzi – in cui faccio la conoscenza del Noe, Nucleo operativo ecologico dell’Arma dei carabinieri, che su incarico di un pm di Napoli, il dottor Woodcock, mi intercetta. Apprenderò dell’intercettazione mentre sono presidente del Consiglio, grazie a uno scoop del Fatto Quotidiano firmato da un giornalista che si chiama Marco Lillo. Segnatevi mentalmente questo passaggio: Procura di Napoli, un certo procuratore, il Noe dei carabinieri, il Fatto Quotidiano, un certo giornalista. Siamo nel 2014, non nel 2017, sia chiaro. Che poi i protagonisti siano gli stessi anche tre anni dopo è ovviamente una coincidenza, sono cose che capitano”.
L’insinuazione che Il Fatto abbia ottenuto le notizie per i due scoop nel 2015 e nel 2016-7 sempre grazie al Noe e al pm Woodcock è falsa e diffamatoria ma trova subito una grancassa nelle istituzioni.
Il libro esce il 12 luglio e sembra il canovaccio delle domande poste al pm Lucia Musti di Modena appena cinque giorni dopo dal presidente della prima commissione del Csm. L’avvocato Giuseppe Fanfani, ex sindaco Pd di Arezzo, amico di Maria Elena Boschi e già legale del padre, ascolta con i suoi colleghi del Csm il procuratore di Modena nell’ambito del procedimento contro Henry John Woodcock finalizzato a capire se il pm di Napoli che ha osato intercettare il padre del leader Pd debba essere trasferito per incompatibilità.
La pm Lucia Musti ha ricevuto per competenza nell’aprile del 2015 le carte del fascicolo Cpl Concordia, istruito da Woodcock, nel quale era contenuta l’intercettazione di Matteo Renzi con il generale Adinolfi. La telefonata è divenuta pubblica nel luglio 2017 perché non era più segreta e Il Fatto – come la Procura di Napoli ha ricostruito già nel 2016 – l’ha avuta da fonti non investigative in modo pienamente lecito. E non era più segreta per una svista non del pm Woodcock ma degli uffici dei pm dell’antimafia che l’avevano ricevuta per competenza di materia da Woodcock proprio come la dottoressa Musti l’aveva avuta a Modena.
I pm di Napoli nel 2015-2016 indagarano i carabinieri del Noe che avevano aiutato il personale di segreteria, oberato di lavoro, a effettuare la scansione delle pagine senza avvedersi che l’informativa depositata non era quella omissata ma la versione precedente, che non conteneva gli omissis. Così quelle due pagine così delicate con i giudizi sprezzanti di Renzi su Letta sono finite nel computer della Procura accessibile a tutti gli avvocati del procedimento. Tre avvocati (almeno) ne vennero in possesso e così Il Fatto ha potuto acquisire tutte le carte pubbliche del fascicolo, compresa quella che doveva restare segreta. Questo tragitto è stato accertato con certezza dai pm e dai loro periti informatici grazie anche alle perquisizioni ai danni dei giornalisti del Fatto e in particolare al sequestro e all’analisi del computer del collega Vincenzo Iurillo che ha firmato quello scoop con chi scrive questo articolo.
I carabinieri del Noe furono indagati e interrogati ma i pm Alfonso D’Avino e Giuseppe Borrelli ne chiesero l’archiviazione a febbraio 2016 perché “E’ da escludersi che la scansione integrale della informativa del 15.10.2014 sia stata intenzionalmente effettuata dai militari al fine di renderla ostensibile attraverso il suo inserimento al TIAP (il sistema informatico della Procura, ndr)”; 2) “la pubblicazione degli atti era avvenuta ad opera del cancelliere (incolpecole anche lui, ndr) addetto alla segreteria del pm dell’antimafia Cesare Sirignano”.
L’audizione della dottoressa Musti al Csm doveva essere diretta ad appurare le responsabilità dei magistrati in quella fuga di notizie. Woodcock in questo caso non aveva alcuna responsabilità ma il pm Musti ne approfitta per fare due dichiarazioni contro la polizia giudiziaria preferita dal pm napoletano: i carabinieri del Noe.
La prima riguarda il fascicolo Cpl Concordia del 2015 e l’allora vicecomandante del Noe dei Carabinieri Sergio De Caprio, alias Ultimo.
Questa è la ‘la seconda versione’ del verbale pubblicata dal quotidiano Repubblica (diversa da quella del giorno precedente) riguardo all’incontro Ultimo-Musti per le carte dell’indagine Cpl Concordia del 2015: “Il presidente Fanfani chiede: «Chi glielo disse?». Musti: «Il colonnello De Caprio mi disse: “Lei ha una bomba in mano, se vuole la può fare esplodere”». Fanfani: «Ma in riferimento a cosa?». Lei: «Ma cosa ne so? Cioè, io non lo so perché erano degli agitati. Io dovevo lavorare su Cpl Concordia, punto, su quest’episodio di corruzione. Dissi ai miei, “prima ci liberiamo di questo fascicolo meglio è”».
Musti quindi sta dicendo al Csm che Ultimo quando consegnò il fascicolo Cpl Concordia a Modena disse che era una bomba. Il fascicolo non era centrato su Renzi ma sulla coop emiliana e conteneva intercettazioni del 2014 riguardanti: 1) i rapporti tra Massimo D’alema e la Cpl Concordia; 2) la Fondazione Icsa fondata da Marco Minniti ma lasciata dall’ex sottosegretario nel 2013; 3) intercettazioni su altri personaggi del Pd tra cui anche Matteo Renzi ma non solo lui.
Dal testo del secondo (e probabilmente vero) verbale pubblicato da Repubblica ieri si evince chiaramente che il pm Lucia Musti non dice e nemmeno insinua mai che ‘la bomba’ a cui faceva riferimento Ultimo fosse l’intercettazione di Renzi con Adinolfi.
La seconda cosa che dice il pm Lucia Musti al Csm riguarda il fascicolo che nel 2016 vedeva il solito Noe, sempre sotto la direzione del pm Woodcock, impegnato sul versante Consip. Così sempre Repubblica (sempre nella seconda versione del verbale ieri) riferisce la versione del pm Lucia Musti su un suo incontro con il capitano Scafarto ai primi di settembre del 2016: «Lui mi ha parlato del caso Consip, un modo di fare secondo me poco serio, perché un capitano, un maresciallo, un generale sono vincolati al segreto col loro pm, non devi dire a me che cosa stai facendo con un altro. Quindi, quando lui faceva lo sbruffone dicendo che sarebbe “scoppiato un casino”, io dentro di me ho detto “per l’amor di Dio”. Una persona seria non viene a dire certe cose, quell’ufficiale non è una persona seria». Fanfani vuole dettagli: «De Caprio ha detto “Ha una bomba in mano”, mentre Scafarto “succederà un casino”?». Musti risponde: «Scoppierà un casino, arriviamo a Renzi».
E’ evidente dalla lettura di questa versione del verbale l’inesattezza di quanto pubblicato il giorno prima. Lucia Musti non ha mai dichiarato che Ultimo e Scafarto le dissero: ‘Dottoressa, lei, se vuole, ha una bomba in mano. Lei può far esplodere la bomba. Scoppierà un casino. Arriviamo a Renzi’.
Una cosa è la bomba Cpl Concordia di cui parla Ultimo senza alcun riferimento a Renzi e alla sua conversazione con Adinolfi poi pubblicata dal Fatto.
Altra cosa è quel generico “scoppierà un casino arriviamo a Renzi” che sarebbe stato detto nel settembre 2016 dal capitano Scafarto quando aveva già in mano indizi pesanti su Tiziano Renzi.
La scorretta rappresentazione della realtà fatta dai grandi quotidiani insinua che la bomba di cui parlava Ultimo a Lucia Musti nel 2015 fosse l’intercettazione Adinolfi-Renzi. Non basta. la grande stampa e il Pd al seguito forzano anche il senso della frase di Scafarto per insinuare un intento complottistico del Noe contro Renzi nel 2016.
Scrive sul punto Il Corriere della Sera di venerdì “Il fatto che l’ex capitano del Noe abbia detto a Musti, quattro mesi prima di consegnare l’informativa e anche prima che fosse registrata la famosa frase «Renzi l’ultima volta che l’ho incontrato» falsamente attribuita a Romeo («assume straordinario valore e consente di inchiodare alle sue responsabilità il Renzi Tiziano», scrisse Scafarto nel rapporto), potrebbe far immaginare che l’obiettivo dei carabinieri fosse proprio il padre dell’ex premier. Come se fosse un possibile movente della successiva manipolazione dell’intercettazione. E chi volesse ipotizzare che quello fosse lo scopo dei falsi contestati a Scafarto (…) ora avrebbe un motivo in più per sostenerlo”.
La rappresentazione di un colloquio in cui Scafarto parla con Musti prima di avere nelle mani gli indizi e le registrazioni che inguaieranno Tiziano Renzi ha permesso al Pd Michele Anzaldi di presentare un’interrogazione al Governo e ha fatto parlare di ‘fatti di gravità inaudita’ all’ex segretario Pd Dario Franceschini e di “complotto” al capogruppo Pd Luigi Zanda. Grazie a questo modo di fare informazione non è apparsa ridicola la visita di Matteo Renzi a Rignano così raccontata in un pezzo dal titolo “Consip, Renzi subito a Rignano dal padre. Con lui il faccia a faccia della pace”.
Il pezzo è uscito il 14 settembre, proprio nel primo anniversario del giorno del famoso pizzino. Il 14 settembre 2016 infatti Alfredo Romeo scrisse su un foglietto ritrovato il giorno dopo nella spazzatura dal Noe e interpretato come un’offerta nero su bianco al ‘compare di Tiziano Renzi, Carlo Russo, di 30 mila euro al mese, destinati a ‘T.’ che secondo la tesi accusatoria sarebbe Tiziano Renzi.
Al di là delle conseguenze politiche della strumentalizzazione delle frasi della pm Musti, c’è una conseguenza giudiziaria di non poco conto. Alla Procura di Roma sono state trasmesse dal Csm le dichiarazioni della pm di Modena perché i pm Paolo Ielo e Mario Palazzi valutino se inserirle nel fascicolo contro Woodcock. Non solo. Lunedì prossimo la solita prima commissione del Csm presieduta dal solito Giuseppe Fanfani convocherà i due pm di Napoli, Giuseppe Borrelli e Alfonso D’avino, che si sono occupati del’indagine sulla pubblicazione da parte del Fatto dell’intercettazione Renzi-Adinolfi.
In pratica il presidente della commissione del Csm convoca i procuratori aggiunti di Napoli e trasmette carte alla Procura di Roma perché finalmente si indaghi a fondo nella direzione del collegamento tra i due scoop del Fatto, proprio la direzione auspicata dal leader Matteo Renzi nel suo libro.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

Vittoria, arrestato l’ex sindaco PD. Quello che parlava di “macchina del fango”.

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Ne scrive (tra gli altri) La Spia ma sono molto contento per chi, da tempo, denunciava i fatti ed è stato isolato. Un abbraccio a Paolo. Lui sa.

 

Mafia: sindaco di Vittoria indagato per corruzione elettorale =

 (AGI) – Catania, 21 set. – E’ indagato anche l’attuale sindaco di Vittoria (Ragusa), Giovanni Moscato, nell’ambito dell’indagine “Exit poll” della Guardia di finanza, coordinata
dalla Procura di Catania. Il primo cittadino, per il quale non e’ prevista misura cautelare, risponde di corruzione elettorale. Moscato, 40 anni, avvocato, con la sua elezione nel
giugno 2016, a capo di liste civiche ed esponente del centrodestra, aveva fatto segnare una svolta storica a Vittoria, un comune che per 70 anni e’ stato retto da un esponente della sinistra. Secondo gli inquirenti, l’ex sindaco Giuseppe Nicosia e il fratello consigliere Fabio, tra i sei arrestati di oggi per scambio elettorale politico-mafioso, nel turno di ballottaggio si sarebbero schierati per Moscato, il quale avrebbe promesso la stabilizzazione dei 60 dipendenti della ditta che si occupa dei rifiuti.
Un patto scellerato che ha gestito le sorti elettorali, politiche e amministrative di Vittoria,
grosso centro della provincia di Ragusa, per almeno un decennio, garantendo appalti, affari, lauti profitti alle organizzazioni mafiose. Una regia sciagurata che ha dato
sostanza all’inquietante e consolidato intreccio tra politica e boss.
E’ quello che emerge dall’operazione “Exit Poll” della Guardia di finanza, coordinata dalla Procura di Catania, culminata con l’arresto per scambio elettorale politico-mafioso, di sei persone, tra amministratori e boss, per fatti collegati alle elezioni comunali di Vittoria del
giugno 2016. 
Ovvero: Giuseppe Nicosia e il fratello Fabio, attuale consigliere comunale, Giovambattista Puccio e Venerando Lauretta, entrambi gia’ condannati per associazione mafiosa, Raffaele Giunta e Raffaele Di Pietro.
UN EX SINDACO ARRESTATO, UNO IN CARICA INDAGATO 
Tra i destinatari della misura cautelare degli arresti domiciliari l’ex sindaco del Pd Giuseppe Nicosia, primo cittadino per due mandati consecutivi dal 2006 al 2016; e il fratello Fabio, 51 anni, eletto consigliere comunale a Vittoria nella tornata elettorale del 2016. E risulta indagato per corruzione elettorale l’attuale sindaco Giovanni Moscato.
Il primo cittadino, avvocato di 40 anni, per il quale non e’ prevista misura cautelare, con la sua elezione, a capo di liste civiche ed esponente del centrodestra, aveva fatto segnare una svolta storica a Vittoria, un comune che per 70 anni e’ stato retto da un esponente della sinistra. Secondo gli inquirenti, l’ex sindaco e il fratello, nel turno di ballottaggio si
sarebbero schierati per Moscato. 

Applicata, inoltre, la misura interdittiva della sospensione dai pubblici uffici nei
confronti dell’assessore al Bilancio dell’epoca, Nadia Fiorellini, per falsificazione delle autenticazioni delle sottoscrizioni delle liste elettorali.
Le indagini, coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia di Catania, sono state svolte dal Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza che ha eseguito gli arresti
anche a carico di Giombattista Puccio, 57 anni, detto “Titta u ballerinu”, di cui e’ stata accertata nel 2003 la contemporanea appartenenza a Cosa nostra e Stidda, coinvolto in diverse operazioni contro il clan stiddaro “Dominante – Carbonaro” (Operazioni Squalo nel 1994 e “Flash Back” nel 2006) ed e’ indicato da piu’ collaboratori di giustizia quale attuale
esponente di spicco della Stidda; Venerando Lauretta, 48 anni, gia’ condannato per la sua appartenenza al clan “Dominante – Carbonaro”; Raffaele Di Pietro, 55 anni, e Raffaele Giunta, 55 anni, entrambi con vari precedenti penali; i due risultano aver svolto un ruolo di intermediazione attiva nell’accordo criminale stretto tra politica e mafia.

LO SCELLERATO INTRECCIO LUNGO UN DECENNIO
Le Fiamme Gialle hanno effettuato intercettazioni telefoniche, perquisizioni, sequestri e acquisizioni documentali. Un contributo notevole e’ stato fornito anche dalle dichiarazioni
di alcuni collaboratori di giustizia da cui e’ emerso con chiarezza l’intreccio affaristico-politico-mafioso che, nella citta’ di Vittoria, sostengono gli inquirenti, “ha condizionato e orientato le scelte elettorali anche prima delle elezioni amministrative del 2016”. Il quadro delineato dai collaboratori di giustizia e’ infatti molto ampio ed evidenzia come i fratelli Nicosia abbiano ricevuto a Vittoria il sostegno elettorale della “Stidda” sia nelle amministrative del 2006 e 2011, sia nelle regionali e nazionali del 2008 e 2012. Il
convogliamento dei voti, secondo quanto accertato, e’ stato ricompensato dal sindaco Giuseppe Nicosia con l’assegnazione di appalti e posti di lavoro a favore degli attuali coindagati Giunta e Di Pietro. In questo inquietante scenario le attivita’ dei finanzieri del Gico del Nucleo di Polizia Tributaria di Catania hanno consentito di tracciare i contatti tra i fratelli Nicosia ed esponenti di vertice della Stidda, particolarmente attiva in area vittoriese nella gestione economica di interi settori quali la raccolta della plastica e la produzione degli imballaggi per i prodotti ortofrutticoli.

Belle storie di resistenza quotidiana. Femminile e antimafiosa.

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Una vita dedicata alla terra. La loro. E poi arriva qualcuno che vuole portarsela via, prima facendo una proposta ridicola (5mila euro per 90 ettari di terreno, comprensivi di attrezzature) poi, a proposta rifiutata, con minacce nemmeno troppo velate per prendersela, se non con le buone allora con le cattive. Irene, Anna e Ina Napoli sono le protagoniste di questa storia, ambientata a Mezzojuso, nel cuore della provincia di Palermo, e raccontata da Repubblica TV. Qui, nei campi che si estendono fino a Corelone, esiste una mafia antica che prova a impossessarsi delle terre coltivate a grano e fieno. Le tre sorelle, che gestiscono un’azienda agricola di 90 ettari, dopo l’offerta economica ricevuta nel 2006, ne hanno subite tante: all’inizio, per paura, hanno taciuto, continuando a ignorare le invasioni delle “vacche sacre” dei boss, spedite in missione per danneggiare i raccolti e spingerle così ad abbandonare la loro terra. Ma nel 2014, esauste, hanno preso il coraggio a sei mani e hanno sporto denuncia: ai carabinieri hanno raccontato delle decine di raid, documentate un un quaderno in cui appuntano tutto quello che accade e in cartelle sul pc in cui archiviano foto di situazioni che hanno subito.

“SE TUTTI CE NE ANDIAMO, LA SICILIA A CHI RESTA?”

 

La chiamano “mafia dei pascoli”. “A luglio – raccontano le sorelle con voce tremante e visibilmente esauste – hanno distrutto il raccolto, ma non ci fermeranno. Non avranno mai le nostre terre”. Le donne mostrano poi al giornalista il loro raccolto: 330 balle di fieno, che normalmente si raccolgono in un ettaro di terreno, sono state raccolte in 24 ettari, quello che è rimasto dopo l’invasione di vacche, cavalli e pecore. “Una sera, arrivo e vedo queste mucche e i cavalli che mi calpestavano il terreno. C’erano tutte le recinzioni tagliate, è stato terribile”. La battaglia delle tre donne non è facile. Raccontano di aver avuto paura e per questo erano restie a denunciare, ma quando la situazione è diventata insostenibile, si sono fatte forza. Hanno dovuto munirsi di telecamere, alcune puntate sull’abitazione, altre sui campi, con le qual possono monitorare la situazione e verificare se sta succedendo qualcosa o se manca qualche animale. “Certo che abbiamo pensato di andarcene – commenta una delle sorelle – ma se tutti facciamo così, questa Sicilia a chi resta?”

(fonte)

Il sindaco di Seregno, lo zerbino dei mafiosi: le carte dell’inchiesta

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Dopo «7 anni» di indagini sulla ‘ndrangheta in Lombardia «posso dire che c’è un sistema» fatto di «omertà» e di «convenienza da parte di quelli che si rivolgono all’anti Stato per avere benefici». Così il procuratore aggiunto della Dda di Milano Ilda Boccassini ha commentato il maxi blitz avvenuto all’alba di martedì: 24 arresti – tra cui il sindaco di Seregno Edoardo Mazza e un dipendente della Procura di Monza, Giuseppe Carello – nelle province di Monza, Milano, Pavia, Como e Reggio Calabria, nell’ambito di un’inchiesta su infiltrazioni della ‘ndrangheta nel mondo dell’imprenditoria e della politica in Lombardia, inchiesta che vede tra gli indagati anche l’ex vicepresidente della Regione Mario Mantovani. Boccassini ha commentato che oggi, a 7 anni dell’operazione Infinito, «è facile» per le cosche «infiltrarsi nel tessuto istituzionale». L’inchiesta è coordinata dalla Procura di Monza e dalla Procura Distrettuale Antimafia di Milano. In tutto, 27 le misure cautelari: 21 in carcere, 3 ai domiciliari e 3 interdittive, firmate dai gip Pierangela Renda e Marco Del Vecchio. Le accuse: associazione di tipo mafioso, estorsione, detenzione e porto abusivo di armi, lesioni, danneggiamento (tutti aggravati dal metodo mafioso), associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio, abuso d’ufficio, rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento personale.

In particolare, un terremoto giudiziario scuote l’amministrazione di Seregno. Agli arresti domiciliari per corruzione è finito il sindaco in persona, il forzista Edoardo Mazza. Sotto accusa i suoi rapporti con il costruttore Antonino Lugarà (in carcere), considerato uomo vicino ad esponenti della ‘ndrangheta. L’imprenditore, come notato dagli inquirenti che hanno ascoltato le intercettazioni, trattava il sindaco come «uno zerbino». L’ipotesi sostenuta dai pm di Monza Giulia Rizzo e Salvatore Bellomo è che Lugarà abbia ottenuto la concessione di un’area del Comune brianzolo, la cosiddetta area «ex Dell’Orto», sulla quale realizzare la costruzione di un supermercato, come contropartita del sostegno e consenso elettorale procurato al sindaco di centrodestra durante la campagna elettorale del 2015. «Ogni promessa è debito», gli dice infatti il sindaco in un’intercettazione. Agli arresti domiciliari anche un consigliere comunale di Seregno, e inoltre sono state emesse tre misure interdittive all’esercizio di pubblici uffici, una delle quali riguarda l’assessore Gianfranco Ciafrone.

Avvocato civilista, 38 anni, Edoardo Mazza è stato eletto nel 2015 nelle fila di Forza Italia alla carica di sindaco di Seregno, paese di 45mila abitanti in provincia di Monza. Per la sua elezione Lega e Forza Italia si sono compattate per sostenerlo. Molto attento ai social network, Mazza ama comunicare servendosi di Facebook. In alcuni di questi interventi, si è distinto per aver preso in mano un paio di forbici quando parlava degli stupratori di Rimini, o per le sue campagne contro i mendicanti, invitando i suoi cittadini a non dare l’elemosina per scoraggiare il loro arrivo in città.

La solidità della coalizione di centrodestra ha mostrato i primi scricchiolii tra maggio e giugno di quest’anno, con le dimissioni del leghista Davide Vismara da segretario di sezione, alle quali sono seguite quelle della collega di partito Barbara Milani da assessore alla Pianificazione territoriale ed all’edilizia privata e poi quelle di due consiglieri comunali, anch’essi del Carroccio. Una «fuga» che alla luce dell’esecuzione della misura cautelare emessa nei confronti del primo cittadino dal tribunale di Monza per corruzione, suona oggi come una presa di distanza preventiva.

L’inchiesta dei carabinieri, partita nel 2015, e che porta la firma dei pm monzesi Salvatore Bellomo, Giulia Rizzo e del Procuratore della Repubblica di Monza Luisa Zanetti e dei pm della Dia Alessandra Dolci, Sara Ombra e Ilda Boccassini, rappresenta una costola dell’indagine «Infinito», che nel 2010, sempre coordinata dalle procure di Monza e Milano, aveva inferto un duro colpo alle «locali» ‘ndranghetiste in Lombardia.

Anche un dipendente dell’ufficio affari semplici della Procura di Monza, Giuseppe Carello, è stato arrestato in esecuzione di ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari con l’accusa di rivelazione di segreti d’ufficio. Il procuratore della Repubblica di Monza Luisa Zanetti ha riferito: «Attraverso le sue credenziali accedeva alla nostra banca dati e rispondeva alle domande dell’ imprenditore di Seregno indagato. Viene ascoltato mentre elenca gli indagati davanti alla nostra schermata, poi abbiamo una fotografia che inquadra l’imprenditore con il nostro dipendente». Il procuratore poi ha aggiunto: «Giuseppe Carello, ai domiciliari, ha violato la fiducia del procuratore e del personale giudiziario ed amministrativo che sono totalmente estranei ai fatto. Ha violato il giuramento alle istituzioni».

Come riferito da Boccassini, «è stata individuata una delle persone che era rimasta fuori» dagli arresti dell’operazione Infinito del 2010, e che partecipò in quell’anno al noto summit in un centro intitolato alla memoria di Falcone e Borsellino a Paderno Dugnano. Sono stati identificati i boss della locale di Limbiate, ed è stato sgominato un sodalizio dedito al traffico di ingenti quantitativi di cocaina, con base nel Comasco, composto prevalentemente da soggetti originari di San Luca (RC), legati a cosche di ‘ndrangheta di notevole spessore criminale. Nel corso dell’indagine sono stati ricostruiti, ha spiegato Boccassini, «episodi brutalmente e stupidamente violenti». Per esempio, un cittadino di Cantù che andava al lavoro alle 5 di mattina fu colpito con il calcio di una pistola ma non ebbe il coraggio di denunciare: «Non me lo chiedete perché ho paura e so che sono pericolosi», disse agli inquirenti.

«La ‘ndrangheta è l’associazione mafiosa più pericolosa perché si insinua nel tessuto economico e ha rapporti con le istituzioni. Bisogna scoprire questi legami e tagliarli di netto»: così il presidente della Lombardia, Roberto Maroni, ex ministro dell’Interno ha commentato la maxioperazione in Lombardia. «Chi rappresenta il popolo nelle istituzioni – ha spiegato Maroni ai microfoni di Radio 24 – deve ovviamente stare lontano e rifiutare ogni rapporto con queste persone. Se poi qualcuno ci casca, è giusto che venga estromesso immediatamente dalla politica alle istituzioni».

Mario Mantovani, consigliere regionale lombardo di Forza Italia ed ex vicepresidente della Lombardia, già arrestato due anni fa in un’altra inchiesta, è indagato per corruzione (non gli vengono contestati reati di mafia) in un filone dell’indagine. Da quanto si è saputo, l’accusa riguarda i suoi rapporti con l’imprenditore Antonino Lugarà, lo stesso che ha intrattenuto rapporti con il sindaco di Seregno. Mantovani ha scritto su Facebook: «Avvenuta perquisizione questa mattina presso i miei uffici in relazione ai fatti (su cui indaga la procura di Monza) di cui nulla so, che apprendo dai media di stamane e che sono lontanissimi dal mio agire politico e personale. Nulla è emerso. Sempre a disposizione della trasparenza e della legalità». Secondo la ricostruzione delle indagini, Lugarà avrebbe dato «la disponibilità e l’impegno a procurare consenso elettorale e l’appoggio politico» durante la campagna elettorale del maggio e giugno 2015 a favore di Mazza «nonché assicurando l’appoggio di Mantovani». «Ciao Mario ti ringrazio molto per la vittoria di Seregno è anche merito tuo, quando puoi ti vorrei incontrare», scriveva Lugarà in un sms.

(fonte)

L’ordinanza completa:

clicca qui


Qualche puntuale precisazione su Scarantino e Di Matteo

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Per fortuna c’è Roberto Galullo che prova a rimettere in ordine le cose:

 

Dell’audizione del sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo il 13 settembre davanti alla Commissione bicamerale presieduta da Rosy Bindi, ho scritto un pezzo praticamente in diretta il giorno stesso sul sito del Sole-24 Ore(http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-09-13/di-matteo-strage-via-d-amelio-mai-entrato-indagini-155547.shtml?uuid=AEJNKNSC&fromSearch).

In sintesi Di Matteo dice, con riferimento a quello che poi si rivelerà essere un falso pentito, vale a dire Vincenzo Scarantino, che «quelle indagini mossero da dichiarazioni e indagini precedenti e dunque si tratta di capire chi condusse quelle indagini e quali siano stati eventuali depistaggi volontari. Ed è qui che crolla l’assunto per cui a tutti i costi mi si vuole coinvolgere». Sottinteso: negli errori di valutazione di un soggetto che menerà la Giustizia a largo dalla verità, lui non poteva, non può e non potrà essere coinvolto.

Pur senza citarla, il riferimento era anche alle parole di Fiammetta Borsellino, figlia del giudice ucciso il 19 luglio 1992 con la scorta a Palermo, che aveva parlato di indagini sulla strage condotte all’epoca da un pool di persone inesperte (tra le quali Di Matteo stesso) e di una procura all’epoca massonica.

Il riferimento, però, era anche e soprattutto a quella marea montante di (dis)informatori (nei media e nella politica) che con cagnesco accanimento ha bersagliato e continua a bersagliare proprio Di Matteo sul presunto suo coinvolgimento nell’abbaglio che portò, immediatamente dopo la strage, investigatori e inquirenti a seguire Scarantino.

Orbene – prima di arrivare ad una prima conclusione di ragionamento in questo primo servizio che dedicherò alla sua audizione del 13 settembre, ora che l’intera trascrizione è stata messa sul sito della Commissione bicamerale – è bene apprendere dallo stesso Di Matteo perché non poteva, non può e non potrà essere coinvolto in un quell’enorme guazzabuglio investigativo che seguì alla strage di Via d’Amelio.

Tra i processi per la strage Di Matteo ha infatti seguito un solo processo, dall’inizio delle indagini alla conclusione della sentenza di primo grado: il cosiddetto processo via D’Amelio-ter. «È stato l’unico che ho seguito dal momento in cui è stato iscritto il fascicolo nel registro delle notizie di reato nei confronti di alcuni soggetti al momento in cui, il 9 dicembre 1999 – ha spiegato scandendo bene le parole accanto a Bindiè stata emessa la sentenza di primo grado. In quel processo sono state irrogate venti condanne per concorso in strage. Quel processo, l’unico che io ho seguito dall’inizio dell’indagine, prescinde completamente e assolutamente dalle dichiarazioni di Scarantino Vincenzo. In quel processo, Scarantino Vincenzo non è stato chiamato neppure a testimoniare. Nelle sentenze del processo, negli atti di quel processo, non c’è alcun riferimento, non troverete alcuna dichiarazione di un soggetto che noi non abbiamo chiamato neppure a testimoniare».

Ma Di Matteo andrà oltre.

Le trascrivo testualmente le sue dichiarazioni davanti ai membri della Commissione parlamentare antimafia perché sui media (carta stampata web, radio, tv) non ne troverete assolutamente traccia.

«Affermare che tre processi sono stati fondati sulle dichiarazioni di Scarantino è semplicemente un falso – dirà d’un fiato il sostituto procuratore nazionale antimafia – è assolutamente infondato. Vi ho già anticipato alcuni dati in questo senso. Vi ho ricordato il dato del via D’Amelio-ter, processo nel quale Scarantino non è stato nemmeno citato nella lista dei testimoni di accusa. Ma, andando a ritroso, affermare che anche il via D’Amelio-bis si sia fondato esclusivamente sulle dichiarazioni di Scarantino è un altro dato falso, tant’è vero che molte condanne inflitte da quella corte nel via D’Amelio-bis – Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Salvatore Biondino, Carlo Greco, Francesco Tagliavia, Giuseppe Graviano – sono state confermate e mai successivamente messe in discussione, nonostante le dichiarazioni di Spatuzza.
Ecco perché, anche per il via D’Amelio-bis, affermare che quel processo abbia dato credito incondizionato alle dichiarazioni di Scarantino è semplicemente falso. Significa non conoscere gli atti; significa adeguarsi a una prospettazione che, molto abilmente, qualcuno sta instillando anche nella mente di persone in buonafede; significa non avere letto la requisitoria. Fingere di non ricordare che lo stesso pubblico ministero, già nel via D’Amelio-bis, aveva sostenuto che le dichiarazioni di Scarantino erano state inquinate dopo i primi tre interrogatori e potevano essere utilizzate – così si esprime il pubblico ministero in quella requisitoria – solo se confortate in maniera particolarmente significativa da altri e forti elementi di prova, da altre dichiarazioni di altri pentiti, da altre testimonianze, da altre intercettazioni telefoniche… Per questo motivo lo stesso pubblico ministero, in assenza di significativi elementi di prova diversi dalle propalazioni di Scarantino, già nel via D’Amelio-bis chiese e ottenne l’assoluzione per il delitto di concorso in strage di Calascibetta Giuseppe, Murana Gaetano e Gambino Antonino, soggetti che poi vennero condannati perché altre fonti di prova vennero in appello – in processi che quindi non seguivo io, non seguiva la procura di Caltanissetta, ma casomai l’organo inquirente della procura generale di Caltanissetta – e le assoluzioni, anche queste sollecitate dal Pm, si trasformarono poi in condanne. Ecco il perché oggi della revisione
».

 

(l’articolo continua qui)

Michele Zagaria comanda (ancora) anche dal carcere

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Vincenzo Iurillo per Il Fatto Quotidiano:

 

Il passaggio chiave si legge alla fine dell’ordinanza: “Il controllo del clan di Michele Zagaria nel territorio di Trentola Ducenta(Caserta) è ancora penetrante e il rischio che possa influenzare le elezioni amministrative del 2018 è molto elevato”. Per questo, sostiene il Gip di Napoli Federica Colucci, l’imprenditore Nicola Russo deve andare in carcere: è uno dei professionisti “a disposizione” del boss attraverso i quali il clan dei Casalesi “può riprendere il controllo sul Comune”, arrestato il 27 settembre scorso.

Trentola Ducenta commissariata
Trentola Ducenta è commissariata e il voto è in calendario per la primavera del 2018. Il sindaco Michele Griffo dovette farsi da parte dopo essere stato arrestato nel dicembre 2015 nell’ambito dell’inchiesta Jambo. È il nome del gigantesco centro commerciale realizzato, secondo l’inchiesta della Dda partenopea – pm Catello Maresca, procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli – grazie a un “forte e duraturo legame tra camorristi, politici e imprenditori”.

 

Russo analista dei boss
Russo è stato arrestato nei giorni scorsi con accuse di associazione camorristica. È uno degli imprenditori che strinsero il patto. Commerciante di ortofrutta e poi titolare di un centro di analisi, fu indagato in Jumbo e da allora una sequela di pentiti, a cominciare da Antonio Iovine, hanno aggiunto alcuni dettagli importanti sui suoi legami col boss. Avrebbe trasportato “valige piene di soldi” per conto di Zagaria e avrebbe intermediato tra il clan e Alessandro Falco, il patron del centro commerciale sequestrato. Zagaria e Iovine si sarebbero curati da lui durante la latitanza. Russo avrebbe seguito attraverso amici comuni la fase del prelievo e del trasporto dei campioni di sangue per mantenere l’anonimato dei referti. E avrebbe fornito a Zagaria documenti d’identità fasulli e ospitalità per proteggerne la latitanza. Iovine a verbale lo identifica nel “Nicolino” che nel 2001 venne a prendere Zagaria in Francia, a Lione, durante un periodo di vacanza. “Ricordo che il luogo prestabilito era un ristorante di Lione, molto lussuoso, nel quale mangiammo tutti insieme, io, Zagaria e Nicolino”.

 

Zagaria e il giallo della pen drive
Intanto prosegue a tappe forzate il processo Medea che vede imputati l’ex senatore dell’Udeur Tommaso Barbato (in qualità di ex dirigente del settore acquedotti della Regione Campania) e i protagonisti della presunta spartizione degli appalti del servizio idrico campano per favorire imprenditori del clan Zagaria. Il Tribunale di Napoli nord ha disposto un fitto calendario di udienze per arrivare a sentenza entro i primi mesi del 2018. Il pmMaurizio Giordano ha depositato nuovi verbali di collaboratori di giustizia, che rielaborano una storia finita tra le maglie di quest’inchiesta: quella della pen drive a forma di cuore in possesso di Zagaria, che poi sarebbe ‘scomparsa’ durante la cattura del boss e la perquisizione del covo-bunker di Casapesenna, il 7 dicembre 2011.

Il poliziotto sotto inchiesta e il depistaggio
Un poliziotto, Oscar Vesevo, è indagato con l’accusa di aver intascato 50.000 euro dalla vendita della chiavetta a un imprenditore ritenuto vicino al clan Zagaria, Orlando Fontana. Cosa contenesse quella pen drive, e se sia esistita davvero, è un mistero. Un rapporto dei Ros ha ipotizzato che Zagaria vi conservasse la contabilità delle tangenti. Il pentito Salvatore Orabona afferma invece che in quella chiavetta il boss ha messo in fila i nomi dei politici e degli imprenditori collusi e che finì “nelle mani di Filippo Capaldo, nipote di Zagaria”. In mano ai giudici adesso c’è un verbale di Orabona del 24 ottobre 2016. Il collaboratore di giustizia racconta alcuni episodi che messi insieme dipingono un tentativo di depistaggio da parte del clan. “Ero in cella con Antonio Zagaria (fratello di Michele, ndr) e Carlo Bianco e li ho ascoltati mentre parlavano dell’esistenza di questa pen drive a forma di cuore e del fatto che doveva essere restituita al clan perché c’era il nome di molti imprenditori di Michele Zagaria”. Era il 2014 e quella chiavetta “non era ancora pervenuta a Capaldo”. Nel luglio 2015 gli arresti di Medea fanno uscire la notizia della pen drive del boss e dei segreti che vi erano custoditi, e Orabona dice di aver ascoltato questa macchinazione: “Antonio Zagaria disse a Carlo Bianco che, non appena sarebbe stato scarcerato, visto che mancavano pochi giorni, doveva prendersi l’incarico di reperire una pennetta Usb a forma di cuore che avrebbe dovuto poi far trovare alla Polizia in modo da porre fine a quelle notizie. Antonio Zagaria disse a Carlo Bianco che avrebbe dovuto dare questa pennetta Usb a forma di cuore alla moglie di Vincenzo Inquieto (Zagaria fu catturato nel bunker di villa Inquieto a Casapesenna, ndr), caricando su tale pennetta dei contenuti per bambini, ossia che si trattava di una pennetta appartenuta alla figlia di Vincenzo Inquieto e non a Michele Zagaria. In questo modo, tutta la vicenda si sarebbe definitivamente risolta”. Le cose andarono davvero così? Orabona aggiunge di essere tornato sull’argomento con Bianco qualche mese dopo. “Gli chiesi se avesse fatto quel ‘servizio’, mi confermò che era ‘tutto a posto’ e non aggiunse altro”. Significava, secondo il pentito, che aveva portato a termine la missione.

Mafia: blitz contro il clan Rinzivillo. 37 arresti. Anche due carabinieri.

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Avrebbero passato notizie riservate ai membri del clan: per questo motivo due carabinieri sono stati arrestati insieme ad altre 35 persone nell’ambito di un’operazione contro il clan mafioso Rinzivillo di Gela, da sempre alleato dei Madonia e con i corleonesi. Sequestrati beni e società per oltre 11 milioni di euro. Il blitz di carabinieri, finanza e polizia (italiana e tedesca) è stato condotto in Italia (Sicilia, Piemonte, Lazio, Lombardia ed Emilia Romagna) e in Germania (italiana e tedesca). La maxi operazione è stata coordinata dalla Procura nazionale antimafia e antiterrorismo e disposta dalle Direzioni distrettuali antimafia di Roma e di Caltanissetta. Tra gli arrestati anche un avvocato di Roma, che sarebbe il trait d’union tra i mafiosi e i professionisti. Nei confronti dei due militari l’accusa è di accesso abusivo alle banche dati delle forze dell’ordine: in sostanza avrebbero passato notizie riservate ai membri del clan.

Il clan gelese dei Rinzivillo fu decimato nel 2006 con una operazione dei carabinieri, denominata “Tagli pregiati“, che portò in carcere 79 persone e il sequestro di beni per 20 milioni di euro, tra la Sicilia, il Lazio e la Lombardia. In manette finirono anche sei donne, accusate di avere garantito i collegamentitra i boss detenuti e i luogotenenti che operavano all’esterno. L’inchiesta antimafia scattò dalla denuncia di un commerciante che denunciò un caso di estorsione. Con le successive indagini i carabinieri riuscirono ad accertare l’esistenza di un racket delle carni controllato dai Rinzivillo che riciclavano, in aziende del settore alimentare e nell’edilizia, i proventi degli affari illeciti come estorsioni, traffico di droga, usura, caporalato, furti e rapine. La loro organizzazione aveva stretto alleanze con il clan Santapaola, a Catania, e con le famiglie della ‘ndrangheta calabrese in varie regioni d’Italia e perfino all’estero. Anche allora, tra gli indagati, fu fermato un maresciallo dei carabinieri, accusato di avere passato ai clan informazioni riservate.

(fonte)

La mafia in mezzo al pesce

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(Riccardo Lo Verso per Livesicilia)

Tagliavia, Graviano, Guttadauro, Rinzivillo, Calcagno: storie di mafia e di affari.

PALERMO – Più che massiccia la presenza è invasiva. I potentati mafiosi sono fra i più attivi nel mercato del pesce.

Tagliavia, Graviano, Guttadauro, Rinzivillo: quando si ha un cognome pesante si spalancano le porte degli affari. E che affari: dalla grande distribuzione alle rivendite al dettaglio, fino ai ristoranti di Milano e Roma.

Le imprese sono intestate a chi in famiglia era rimasto finora fuori dalle inchieste giudiziarie. Antonio e Crocifisso Rinzivillo, boss storici di Gela, detenuti da anni, avrebbero passato il testimone al fratello Salvatore, il quale, oltre a reggere il clan, sarebbe divenuto socio dei Guttadauro di Brancaccio. In particolare di Francesco, figlio di Giuseppe, u dutturi, l’ex chirurgo dell’ospedale Civico che si è trasferito a vivere a Roma dopo avere scontato una lunga condanna per essere stato l’erede dei fratelli Graviano.

Nell’aprile 2016 Rinzivillo e Guttadauro hanno pianificato l’esportazione di pesce dal Marocco. Decisiva, però, sarebbe stata la complicità di altri imprenditori. Tra questi i gelesi Carmelo e Angelo Giannone, padre e figlio, amministratori della Ittica San Francesco. “Facciamo un poco a Milano, un poco a Roma, un poco a Torino”, diceva Carmelo Giannone. Francesco Guttadauro era certo che gli affari sarebbero andati a gonfie vele perché “io a Roma conosco a questo… e c’ho un po’ di agganci per i ristoranti… un amico mio a Milano mi ha detto che lui ha due grossisti al mercato di Milano… scarichi il pese bello e qua ci sono i piccioli”.

È dalla Sicilia, però, che gli affari dovevano partire perché è nell’Isola che cognomi come Guttadauro e Rinvillo possono essere spesi con maggiore successo. Ecco gli incontri al mercato di Porticello, uno dei più attivi della provincia palermitana, dove Salvatore Rinzivillo discuteva con Francesco Guttadauro e il fratello Filippo. Oppure a Mazare del Vallo, nel Trapanese, e Marzamemi, nel Siracusano. C’era sempre qualcuno dal passato o presente mafioso alla cui porta si poteva bussare.

I Giannone, ma anche Antonio Catania, altro imprenditore legato ai clan, pure lui di Gela a cui gli investigatori della Squadra mobile di Caltanissetta fanno risalire un reticolo di imprese: Catampesca srl, Magela srl, Pescagel Group, Gelmar srl, Sicil Tuna Farm, Azzurra pesca, Gela Pesca, Azzurra Med. Senza contare che ai Guttadauro è riferibile la Flott spa con sede ad Aspra, frazione di Bagheria, e basi operative anche in Marocco. Adesso si indaga sui contatti romani e milanesi attraverso cui il duo Guttadauro-Rinzivillo sarebbe riuscito a penetrare nei mercati lontano dalla Sicilia.

Nei mesi scorsi in carcere è finito Pietro Tagliavia, considerato il reggente della famiglia di corso dei Mille. Ed ecco un altro cognome pesante. Basta ricordare che il nonno, Francesco Tagliavia, arrestato nel 1993, è stato condannato all’ergastolo per la strage di via D’Amelio. I Tagliavia con il pesce ci lavorano da decenni. Direttamente o indirettamente. L’ultimo affare è quello del negozio di surgelati di via Franz Liszt, a Palermo, di cui è socia la moglie di Pietro Tagliavia. Fu lui, però, il 21 agosto 2014 a presentarsi al commissariato Zisa-Borgo Nuovo. Arrivò tenendo in mano un sacchetto che conteneva le microspie piazzate dagli investigatori nel quadro delle luci d’emergenza e in una presa elettrica del locale.

Assieme a Tagliavia è stato arrestato anche il cognato Giovanni Lucchese, figlio di Antonino che sta scontando l’ergastolo per gli omicidi dei poliziotti Ninni Cassarà e Roberto Antiochia. Sarebbe lui il vero padrone della Nemo Fish, un ingrosso nella zona di via Giafar finito sotto sequestro.

Nel giugno 2014 sul telefono di Giuseppe Lo Porto, braccio operativo di Tagliavia, pure lui in manette nel blitz, giunse la telefonata di Giuseppe Buttitta, padre di Francesca, la moglie di Filippo Graviano. Lo Porto faceva il punto della situazione con la moglie. Aveva fatto da tramite fra Benedetto Graviano e Pietro Tagliavia. ”Siccome c’è il fratello di Graviano a Palermo, Benedetto”, diceva Lo Porto, il quale aggiungeva che gli era stato fornito un indirizzo di Roma dove la cognata di Benedetto voleva aprire una rivendita di prodotti surgelati. Non solo la moglie di Filippo, ma anche quella di Giuseppe, Rosalia Galdi, detta Bibiana, si era attivata affinché Lo Porto facesse una trasferta nella Capitale: “… chissà, che vuole aprire la fuori. E allora Francesca e Bibiana mi diedero questa via mi dissero… vai a trovarlo”.

Quando nel 2015 fu azzerata l’ultima rete di boss e picciotti del mandamento di Porta Nuova emerse la figura del nuovo reggente Paolo Calcagno che con il pesce faceva grandi affari. Con il suo braccio destro, Giuseppe Ruggeri, controllavano l’intera filiera. Dalle forniture all’ingrosso alla vendita al dettaglio nei mercati storici di Palermo. La loro scalata illecita del mercato fino a raggiungere il monopolio era passata attraverso due imprese: la Frescogel e la Worldfish, entrambe sequestrate. Hanno sede in via Tiro a Segno e in via Cappuccinelle. “A Palermo tutto ruota intorno a me forse non l’hai capito”, diceva Ruggeri con una frase emblematica ad un accondiscendente grossista veneto. Nei mercati Capo e Ballarò il controllo mafioso era asfissiante. Si spingeva addirittura fino alla scelta di cosa si dovesse vendere e a quale prezzo. I boss decidevano pure come dovevano essere allestite le bancarelle.

Palermo e non solo. Una volta un grossista di Bari chiuse un affare con un azienda ittica di San Vito Lo Capo. Il padroncino palermitano incaricato di consegnare la merce avvertì subito Ruggeri. La sua risposta fu perentoria: “Lasciagli tutto là sopra, come un crasto… mezzo bancaletto, te ne faccio uno e mezzo io e ricompensi”.

Claudio Domino e la persistente bugia della mafia che non tocca i bambini

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(Silvia Buffa per Meridionews)

 

Aveva assistito per caso al confezionamento di alcune dosi di eroina in un magazzino della zona o, peggio, al sequestro di qualcuno che non avrebbe più fatto ritorno. Non lo sapremo mai. Ad oggi, resta ancora un mistero il motivo per cui Claudio Domino viene freddato con un colpo di pistola sulla fronte a soli undici anni, mentre gioca tra le vie della sua San Lorenzo, a pochi metri dalla cartolibreria della madre. È la sera del 7 ottobre 1986. Suo padre, impiegato alla Sip, è anche titolare di un’impresa di pulizia dell’aula bunker dell’Ucciardone, dove si sta celebrando da appena otto mesi il Maxiprocesso, un procedimento penale enorme che vede Cosa nostra per la prima volta alla sbarra. «Claudio! Claudio vieni qui». Sono passati 31 anni da quando un giovane col volto coperto accosta la sua moto e lo chiama per nome, per farlo avvicinare. Poi, quello sparo a bruciapelo.

Un omicidio inspiegabile che ha lasciato una traccia indelebile nella San Lorenzo di oggi e nei suoi abitanti. Lo sa bene anche Angelo Sicilia, l’inventore dei pupi antimafia, che con quel ragazzino ha passato pomeriggi interi a rincorrere un pallone: «È lui, quello che gli è successo, la sua morte assurda che mi hanno ispirato, che mi hanno spinto a fare quello che faccio, a raccontare Cosa nostra e le sue storie con le mie marionette», raccontava a MeridioNews quest’estate. «Lo hanno ucciso un pomeriggio del 7 ottobre dell’86, nessuno a San Lorenzo può dimenticare quel giorno. Quell’omicidio però paradossalmente è stato la mia salvezza, perché mi ha fatto capire cos’era la violenza mafiosa, è per questo che non mi sono mai perso». Per un bambino interrotto, ce n’è di contro un altro che apre gli occhi e che capisce subito che direzione dare alla propria vita. Ma Claudio Domino non è l’unico bambino privato di questa scelta.

Se ne contano oltre cento di nomi come il suo. Un numero che spazza definitivamente via il presunto riguardo mafioso per le giovani vite. Una menzogna. È una violenza trasversale, quella della mafia, che contrariamente a quanto raccontino padrini e boss, non risponde a nessun codice etico o morale, e che non guarda in faccia nessuno. Bambini compresi. Tra le undici vite falciate il primo maggio 1947, per esempio, in quella che doveva essere una giornata di festa ma che si è trasformata nella strage di Portella della Ginestra, a morire sotto i proiettili di Salvatore Giuliano e della sua banda sono anche Vincenza La Fata, che ha solo otto anni, Giovanni Grifò e Giuseppe Di Maggio, di dodici e tredici anni, e Serafino Lascari di quindici. Ma tra i giovanissimi ci sono anche i diciottenni Giovanni Megna e Castrense Intravaia, e Vito Allotta, che si spegne a 19 anni. È un massacro di giovani vite.

Solo un anno dopo ecco un altro nome, è quello di Giuseppe Letizia, un pastorello di Corleone ucciso a soli tredici anni. È l’11 marzo 1948. Quella notte, mentre accudisce il suo gregge, assiste all’omicidio del sindacalista Placido Rizzotto, gettato da Luciano Liggio, luogotenente di Michele Navarra, capomafia di Corleone, nelle foibe di Rocca Busambra, dove i suoi resti verranno ritrovati solo 61 anni dopo. Il bambino, in preda ai deliri di una febbre altissima, viene portato dai genitori all’ospedale dei Bianchi, diretto dallo stesso Navarra. Racconta di un contadino assassinato nella notte e dopo poche ore muore in seguito a un’iniezione. La versione ufficiale parla di morte per tossicosi, ma si ritiene che il ragazzino possa essere stato avvelenato. La sua colpa? Essere nel posto sbagliato al momento sbagliato. È lo stesso motivo che spegne per sempre la vita dei fratelli Pecoraro: Antonino, che ha nove anni e Vincenzo, che invece ne ha 19. Vittime innocenti della strage di Godrano del 26 ottobre 1959. A crivellarli di colpi sono i fratelli Maggio, travestiti da carabinieri e nascosti nella casa disabitata di un vicino. Antonino viene colpito al torace, ma non muore subito. La sua è un’agonia, se ne va solo dopo due giorni. Il fratello più grande, invece, muore sul colpo, dopo aver sentito gli spari ed essere accorso per aiutare la famiglia.

Il 26 luglio 1991, invece, in un’assolata Palermo, a morire è Andrea Savoca. Ha quattro anni ed è insieme al padre Giuseppe, uno degli uomini di fiducia di Totò Riina. Scarcerato due giorni prima, è pronto a portare finalmente al mare il figlio. In spiaggia, però, non ci arriveranno mai. Due killer col volto coperto a bordo di una grossa moto sparano all’impazzata dentro l’auto posteggiata sotto casa della nonna, a Brancaccio. Il padre muore sul colpo, il bambino invece qualche ora più tardi in ospedale. L’altro fratellino resta illeso a urlare disperato nel sedile della Passat ferma in doppia fila. La madre, invece, vede la scena affacciandosi dal balcone. Una vendetta di sangue per punire chi rubava senza il permesso di Cosa nostra. Trentadue anni prima, il 19 settembre 1959, a perdere la vita è Giuseppina di dodici anni, Savoca anche lei. Gioca sotto casa, in via Messina Marine, quando la raggiunge un proiettile vagante che la uccide sul colpo. A morire, però, doveva essere Filippo Drago, un pregiudicato che lì gestiva una profumeria.

E poi c’è lui, Giuseppe Di Matteo, sequestrato il 23 novembre 1993 a tredici anni da un maneggio di Altofonte. Muore, strangolato e disciolto nell’acido, poco prima di compierne quindici, l’11 gennaio 1996. I familiari, disperati, lo cercano in tutti gli ospedali, ma di lui non c’è traccia. Fino a quel «Tappaci la bocca» recapitato con un bigliettino. Una vendetta per convincere il padre Santino a non collaborare più con i magistrati e a ritrattare le sue dichiarazioni sulla strage di Capaci e sull’omicidio dell’esattore Ignazio Salvo. Santino Di Matteo però non si piega, continua la sua collaborazione con la giustizia. Dopo 779 giorni di prigionia, arriva anche la decisione di Giovanni Brusca: uccidere il bambino. Una scelta da vero uomo d’onore.

Le bugie sul nuovo 41 bis (di Nando Dalla Chiesa)

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(di Nando Dalla Chiesa, da il Fatto Quotidiano, 13 Ottobre 2017)

Ho stima e considerazione del ministro Orlando, con il quale ho anche collaborato sulle mafie al Nord. Ma la libertà di giudizio è irrinunciabile. Specie nei tornanti in cui il vento è a sfavore. La vicenda della “riforma” del 41-bis è una di queste. Alla mafia il carcere non è mai piaciuto, se non come residenza temporanea in cui accumulare potere e prestigio; luogo da cui dare ordini di morte, per brindare poi al loro successo. Figurarsi se poteva piacerle il carcere speciale.

E infatti per 25 anni non ha fatto altro che lavorare ai fianchi questa “eresia”. Basta ricordare le centinaia di 41-bis revocati dal ministro della Giustizia Giovanni Conso nel 1993. E poi l’ abolizione delle carceri speciali di Pianosa e dell’ Asinara con il governo dell’ Ulivo. Di cui i mafiosi detenuti in regime di isolamento furono informati prima ancora del parlamento. E poi le minacce ai parlamentari-avvocati inadempienti verso Cosa Nostra.

Finché nei primi anni duemila Ilda Boccassini notò che di fatto il 41-bis non esisteva più, tanto era stato annacquato. Sapemmo più di recente che nell’ ora d’ aria i capimafia al 41-bis riuscivano addirittura a tenere veri e propri summit: boss di camorra, ‘ndrangheta e Cosa nostra a consesso, a discutere di strategie di affari e di organizzazione.

Ricordo bene quando la Camera approvò la legge. Ricordo il ministro della Giustizia Claudio Martelli entrare in aula ancora terreo per le stragi delle settimane precedenti. E alcuni parlamentari spendere come certa l’ opposizione di Magistratura democratica. Vinse la rivolta morale di chi pensava che se qualcosa si doveva a Paolo Borsellino, il minimo era votare la legge che lui aveva voluto. Non per suo tic personale, ma perché, diversamente da tanti giuristi che ne discettano, lui conosceva bene la mafia, e il suo rapporto con il carcere.

I boss non dovevano più comandare, non dovevano più essere in condizione di comunicare con l’ esterno. Fu un trauma, che per altro produsse una eccezionale fioritura di collaboratori di giustizia. Uomini d’ onore ma non partigiani.

Ebbene, il destino sa apparecchiare i suoi scherzi. Così proprio nel venticinquesimo anniversario della morte di Falcone e Borsellino, quella legge viene irrisa, smontata. Senza particolari sensi di colpa. È la commemorazione senza memoria. Solo che gli eroi dell’ antimafia non sono morti per ricevere medaglie e commemorazioni; sono morti per cambiare questo Paese.

Che invece li commemora e poi torna indietro, come un pendolo implacabile. Obbedendo alle celebri convergenze di interessi, le stesse teorizzate nel maxi-processo istruito dai due giudici. Interessi nobili e ignobili, ignoranze e consapevolezze, suggeritori sopraffini e assassini impazienti; tutti all’opera mentre per mesi si giura che non si sta toccando niente. Ha ben ragione Luigi Manconi, che (illudendosi) rivendica a sé questo risultato, a ricordare che il 41-bis non prevede un di più di afflizione ma un di più (il massimo, vorrei dire) di sorveglianza.

Un carcere non duro, ma speciale. Non afflittivo gratuitamente, ma capace di evitare i collegamenti con l’ esterno. Sicché non ha senso limitare i giornali. Ma ha molto senso non concedere, come si era incredibilmente arrivati a ipotizzare, i collegamenti Skype. E avrebbe, ha molto senso, non concedere liberi contatti con folle di personaggi di nomina politica. O i contatti fisici tra i detenuti e i loro familiari. La proposta di abolire i vetri divisori, almeno con coniuge e figli, era già stata avanzata durante la legislatura 2001-2006. E mi aveva persuaso, per puro istinto umanitario. Giuseppe Ayala, che era con me in commissione Giustizia, ci mise un minuto a gelarmi. E i mafiosi che danno ordini di morte non solo alla moglie ma anche al figlio bambino, sussurrandogli in un orecchio il messaggio che lo zio decodificherà al volo? Ci pensi? Combattere la mafia senza conoscere la mafia, appunto.

Nella richiesta di custodia cautelare nei confronti di Giusy Vitale (era il 1998) la Procura di Palermo rimarcò come il fratello Vito Vitale, profittando della possibilità concessagli di abbracciare i figli minori in carcere, “non ha esitato a sfruttarla a fondo, passando, oralmente, al figlio poco più che decenne, messaggi di fondamentale importanza per l’ associazione mafiosa”. Strategie, estorsioni, soldi. Basta rileggersi quell’ atto per capire che Borsellino non aveva i tic. E che se non siamo un Paese di Pulcinella la circolare della “riforma” dovrebbe essere ritirata con pudore.

Chi può intervenire intervenga. E magari commissioni un bel monitoraggio sulle incredibili perizie mediche e psichiatriche che tengono lontano dal carcere decine di boss mafiosi. Un bel bagno di realtà, occorrerebbe. Tipo quello che è toccato fare alle vittime e a chi se le è piante. Mentre i boss brindavano in carcere a champagne.

 

‘Ndrangheta, parla il pentito: “I servizi segreti ci mangiavano con i sequestri di persona”

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(Lucio Musolino per Il Fatto Quotidiano)

 

Con la stagione dei sequestri di persona gestiti dalla ‘ndrangheta, ci mangiavano tutti: le cosche calabresi ma anche pezzi delle istituzioni che con le famiglie mafiose più potenti della provincia di Reggio non avrebbero esitato a sedersi allo stesso tavolo. Servizi segreti, poliziotti e mediatori che, in un modo o nell’altro, si sono spesi per dare un’immagine di uno Stato che reagisce all’Anonima sequestri. Anche a costo di entrare nelle sanguinarie dinamiche dell’Aspromonte non esitando a scarcerare boss della ‘ndrangheta come Vincenzo Mazzaferro e a far circolare, per tutta la Locride, una valigetta con dentro 500 milioni di vecchie lire. Erano i soldi che lo Stato ha pagato per la liberazione diRoberta Ghidini, sequestrata il 15 novembre 1991 a Centenaro di Lonato, in provincia di Brescia, e liberata in Calabria dopo 29 giorni. Un sequestro per il quale è stato condannato il boss Vittorio Jerinò al termine di un processo nelle cui pieghe, forse, ancora si nasconde il resto di una storia che, se confermata, dimostrerebbe come lo Stato non ha trattato solo con Cosa nostra per fermare le stragi del 1993. Lo ha fatto ancora prima, in Calabria, avventurandosi tra i sentieri dell’Aspromonte con i boss della ‘ndrangheta.

L’archiviazione della Procura di Brescia
“Dottori, queste sono cose delicate perché questi sono uomini di legge…”. Interrogato dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci e dai sostituti della Dda Stefano Musolino e Simona Ferraiuolo, il collaboratore di giustizia Nicola Femia sa che le sue dichiarazioni rischiano di riaprire storie vecchie e mai del tutto chiarite, nonostante i rapporti tra uomini in divisa e clan siano stati oggetto di un’indagine poi archiviata dalla Procura di Brescia per la quale – riportava un’Ansa del 1996 – “restano semplici sospetti insufficienti a sostenere delle accuse davanti a un tribunale”.

Quei sospetti, oggi, sono confermati dal boss Femia arrestato nell’inchiesta “Black monkey” sugli affari delle cosche calabresi in Emilia Romagna. Condannato in primo grado, Femia ha deciso di pentirsi. Ai magistrati della Procura di Reggio ha raccontato di non essere mai “stato affiliato alla ‘ndrangheta. Io praticamente ero un uomo ‘riservato’ di Vincenzo Mazzaferro”. I pm lo interrogano a giugno e il verbale finisce nel fascicolo del processo “Gotha” che vede alla sbarra la componente “riservata” della ‘ndrangheta, tra cui gli avvocati Paolo Romeo e Giorgio De Stefano. Non è un caso che nei capi di imputazione contestati nel processo ci sia anche il riferimento alla famiglia mafiosa dei Mazzaferro di Marina di Gioiosa Jonica.

Ai magistrati, Femia descrive gli anni in cui viveva in Calabria, sempre al fianco del boss Vincenzo Mazzaferro. Racconta di quando lo accompagnava a casa di don Paolino De Stefano e della famiglia Tegano, delle rapine commesse in gioventù e per le quali avrebbe dato una parte a un maresciallo dei carabinieri. Parla dei miliardi portati a Milano e in Vaticano: “Sono andato dentro le mura praticamente. – dice -Portavo i soldi a lui e c’era un garage, in una specie di alberghetto… portavo la macchina là e se la vedeva tutto lui”. Lui era un “certo Antonio” che aveva il compito di andare in Colombia dove i miliardi delle cosche si trasformavano in tonnellate di droga.

Una trattativa Stato-‘ndrangheta per liberare l’ostaggio
Ma è la seconda parte del verbale, quella dedicata ai sequestri di persona degli anni 80 e 90, che ha spinto il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo (nella foto) e il pm Stefano Musolino a inserire numerosi “omissis” per coprire i nomi pronunciati da Femia sulla trattativa Stato-‘ndrangheta per la liberazione di Roberta Ghidini. Fascicoli che, adesso, la Dda sta rispolverando per incrociarli con le dichiarazioni di Femia secondo cui quel sequestro “lo aveva fatto Vittorio Jerinò”. Per convincere quest’ultimo a rilasciare l’ostaggio, entrano in gioco i servizi segreti che – ricorda Femia – “si muovono con i soldi”. Ma i soldi non bastano: servono anche contatti, numeri di telefono, persone disposte a stare nel mezzo. In una parola, mediatori capaci di entrare in contatto con Jerinò. “E hanno trovato Vincenzo Mazzaferro” che però, in quel momento, era detenuto e doveva “uscire dal carcere”. Detto fatto: “I soldi tramite loro (i servizi, ndr) sono arrivati, so che si sono mossi ed è uscito Vincenzo Mazzaferro dal carcere. Era detenuto a Regina Coeli, a Roma, ed è uscito”. Quando la ‘ndrangheta prende un impegno, non ci sono dubbi che lo porti a termine: il boss parla con Vittorio Jerinò e gli dà i soldi che gli deve dare, liberano l’ostaggio e tutti amici.

“Vincenzo Mazzaferro ritorna in carcere? – domanda il procuratore aggiunto Paci – Cioè come esce?”. “No, che ritorna. Esce. Femia ricorda tutto quello che gli ha confidato Mazzaferro ma non ha le risposte a ogni domanda: “Farete le indagini voi per vedere che cosa è successo, io non vi posso dire niente perché sono fatti di Stato”.

Fatti di Stato e ‘ndrangheta. Servizi segreti e cosche che, almeno per quanto riguarda Mazzaferro, si parlavano attraverso un confidente, un informatore del quale Nicola Femia fa anche il nome: “Isidoro Macrì. Basta che vi informate alla questura di Reggio Calabria. Era l’autista… l’autista perché Vincenzo Mazzaferro era strano… questo Isidoro portava l’imbasciata avanti e indietro, faceva pure la persona normale… perché lui lo mandava… i rapporti con i marescialli glieli faceva tenere direttamente a lui e non a persone che magari erano di fiducia per non sputtanarsi”. A un certo punto, le cose cambiano. La ‘ndrangheta lascia stare i sequestri e il suo core-business diventa il traffico internazionale di droga.

Così la ‘ndrangheta decise di chiudere con i sequestri
“Hanno fatto in modo che non si dovevano fare più sequestri”. Per il pentito Femia è stato un vero e proprio accordo tra le famiglie della Locride: “All’epoca – dice – erano iniziati i traffici con la droga e calcolate che a Mazzaferro gli arrivavano 1000 chili di droga, 2000 chili di droga ogni tre mesi. Lui la pagava un milione e ottocentomila lire. La dava a tutte le famiglie a 10 milioni al chilo”. Con i sequestrati in Aspromonte e i controlli della polizia non si poteva trafficare in droga. Ecco perché ci fu un summit di ‘ndrangheta in cui si decise di chiudere con la stagione dei sequestri. Una strategia voluta dai boss Peppe Nirta, Vincenzo Mazzaferro e Pepé Cataldo, tutti morti ammazzati da lì a qualche anno e tutti in periodi in cui le loro famiglie non erano coinvolte in faide: “Di smettere con i sequestri. – fa mettere a verbale Femia – non gli è stato bene a qualcuno… a personaggi che lavorano con i servizi, non lo so a chi”.

 

Il pentito: “I servizi ci mangiavano con i sequestri”
Il collaboratore ha paura, il pm Musolino lo capisce e lo tranquillizza: “Non sia timoroso”. Femia continua e lascia intendere che dietro quegli omicidi potrebbero esserci moventi diversi da quelli esclusivamente mafiosi: “Chi lo doveva ammazzare Vincenzo Mazzaferro? – si domanda – Aveva la macchina blindata e non la prendeva più, con gli Aquino (clan rivale, ndr) aveva fatto la pace, chi lo doveva toccare?”. Le risposte il pentito non ce l’ha. Sa solo che “i servizi ci mangiavano con i sequestri. Se arrivavano cinque miliardi, due miliardi se li prendevano i servizi”.


A proposito di onore di uomini di merda: il boss che ordina di uccidere la figlia

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Ecco, tanto per ricordare cos’è la mafia:

 

La figlia del boss mafioso di Bagheria, Pino Scaduto, arrestato oggi in un’operazione antimafia, avrebbe avuto una relazione con un maresciallo dei carabinieri e per questo il mafioso avrebbe ordinato al figlio di ucciderla. “Tua sorella si è fatta sbirra”, diceva il boss al figlio. Ma il giovane, 30 anni, temeva di finire in carcere. “Io ho 30 anni e non mi consumo per lui”, diceva ad un amico intercettato dai carabinieri. Nell’ operazione ”Nuova alba”, che stamane ha portato all’arresto di 16 persone, sono state ricostruite anche diverse estorsioni ai danni di imprenditori edili tra Bagheria e Altavilla.

L’operazione antimafia in corso è rivolta contro presunti esponenti del mandamento mafioso di Bagheria. I carabinieri del Comando Provinciale di Palermo, con l’ausilio di unità cinofile e di un elicottero, stanno eseguendo un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di 16 persone accusate a vario titolo di associazione mafiosa ed estorsione aggravata dal metodo mafioso. Il provvedimento è stato emesso dal gip del Tribunale di Palermo, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia.

Pino Scaduto era stato scarcerato lo scorso aprile dopo essere stato arrestato nell’operazione Perseo del 2008. Secondo gli inquirenti avrebbe cercato di riprendere il comando della cosca di Bagheria. Il boss è adesso di nuovo in cella, assieme ad altri quindici presunti affiliati.

 

(fonte)

Siamo sempre qui: Dell’Utri e Berlusconi indagati per le stragi del 1993

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Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri sono di nuovo indagati come possibili mandanti delle stragi di mafia del 1993. La Procura di Firenze ha chiesto e ottenuto dal giudice delle indagini preliminari la riapertura del fascicolo a loro carico dopo aver ricevuto da Palermo le intercettazioni del colloqui in carcere del boss di Cosa nostra Giuseppe Graviano, effettuate nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Sono i colloqui in cui il capomafia di Brancaccio diceva al suo compagno di detenzione, nell’aprile 2016, spezzoni di frasi come queste: «Novantadue già voleva scendere… e voleva tutto»; e ancora: «Berlusca… mi ha chiesto questa cortesia… (…) Ero convinto che Berlusconi vinceva le elezioni … in Sicilia … In mezzo la strada era Berlusca… lui voleva scendere… però in quel periodo c’erano i vecchi… lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa…».

 

«Ti ho portato benessere»

 

Frammenti di conversazione, nei quali i riferimenti al fondatore di Forza Italia seppure in un contesto di non facile interpretazione, sono abbastanza chiari. «Nel ‘94 lui si è ubriacato perché lui dice ma io non posso dividere quello che ho con chi mi ha aiutato… Pigliò le distanze e fatto il traditore», dice ancora il boss condannato all’ergastolo per le stragi del ‘92 e del ‘93, arrestato a Milano nel gennaio 1994 , che in un altro passaggio afferma: «Venticinque anni fa mi sono seduto con te…Ti ho portato benessere, 24 anni fa mi è successa una disgrazia, tu cominci a pugnalarmi… Ma vagli a dire com’è che sei al governo, che hai fatto cose vergognose, ingiuste…».

 

Identità coperte

 

Su questi e altri brani di intercettazioni ricevute dai colleghi palermitani, il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo ha delegato alla polizia giudiziaria lo svolgimento di alcune verifiche, e per farlo ha dovuto chiedere al gip di riaprire il fascicolo su Berlusconi e le stragi nella città dove sono concentrate le indagini sulle bombe del 1993 scoppiate a Firenze, Roma e Milano. I nomi dell’ex premier e dell’ex senatore Marcello Dell’Utri (che pure compare nei colloqui intercettati di Graviano, ed è attualmente in carcere per scontare una condanna a sette anni per concorso esterna in associazione mafiosa) sono stati iscritti con intestazioni che dovrebbero coprirne l’identità, come nelle altre occasioni.

 

Le confidenze di Graviano

 

È la terza volta, infatti, che si apre questo filone di accertamenti. Nella prima occasione «autore 1» e «autore 2», gli alias dei due esponenti politici, furono inseriti dopo le dichiarazioni di alcuni pentiti come Salvatore Cancemi e altri, che parlarono del loro coinvolgimento nella metà degli anni Novanta, ma tutto finì con un’archiviazione. La seconda fu nel 2008, dopo le confessioni del nuovo collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, giudicato attendibile in molte corti d’assise e da ultimo dalla Corte di cassazione che ha confermato alcune ulteriori condanne per la strage di Capaci; Spatuzza raccontò le confidenze fattegli proprio da Giuseppe Graviano, il quale gli disse che grazie all’accordo con Berlusconi e Dell’Utri «ci siamo messi il Paese nelle mani». Anche questa seconda indagine è stata archiviata.

 

Facoltà di non rispondere

 

Ora non c’è un pentito che parla, ma sono state le parole dello stesso Graviano a far riaprire l’inchiesta, sebbene sia molto difficile che a distanza di tanto tempo possa portare a qualcosa di concreto. Al processo di Palermo, chiamato a spiegare le sue parole registrate in carcere, Graviano ha preferito tacere e s’è avvalso della facoltà di non rispondere. E ieri, a Reggio Calabria, è cominciato il processo a suo carico per l’uccisione di due carabinieri nel gennaio ’94: un altro pezzo della presunta trattativa che avrebbe coinvolto anche la ‘ndrangheta.

(fonte)

Aemilia: chissà quando ci diranno qualcosa le banche, sui rapporti con la mafia

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(Paolo Bonacini per Il Fatto Quotidiano)

 

Al processo Aemilia tiene banco Antonio Valerio, fresco collaboratore di giustizia che ha deciso di vuotare il sacco nel giugno scorso. E’ un personaggio unico nella ndrangheta 5.0, come chiama la cosca emiliana per spiegare la distanza dalla mafia vecchio stampo, tutta “bacinella, lupara e cuppulicchia”. Uno “’ndranghetista a statuto speciale”, si definisce, che può fare in sostanza (quasi) tutto ciò che vuole in virtù di uno storico legame con il boss Nicolino Grande Aracri.

Ex boxeur, parla di spalle in videoconferenza, mostrando solamente la nuca segnata dalla cicatrice che gli regalò il killer Paolo Belliniquando cercò di ucciderlo nel 1999. Valerio è un uomo erudito per i canoni della ‘ndrangheta, utilizza le “linee di fuga del Brunelleschi” per illustrare l’organigramma funzionale della Famiglia emiliana e fa riferimento al “bosone di Dio” quando parla di accuse sospese nel vuoto. E’ soprattutto la memoria vivente della vita, della morte e dei miracoli che hanno caratterizzato trent’anni di inarrestabile ascesa in Emilia Romagna dei mafiosi provenienti da Cutro, in provincia di Crotone.

Fatture false all’incasso. Uno dei miracoli è la moltiplicazione dei soldi frutto di “un vorticoso giro di false fatturazioni” dicono gli atti processuali, che consentono di “presentarsi all’incasso presso istituti di credito se non compiacenti, certo scarsamente solleciti a esercitare i poteri di segnalazione previsti dalla normativa antiriciclaggio”. Il giro d’affari documentato tra il 2011 e il 2012, relativo alle sole operazioni inesistenti di società che stampano fatture false per frodare il fisco, è di oltre 17 milioni di euro.

Antonio Valerio racconta ai pm e in aula, durante una delle ultime udienze, quello che secondo lui è un caso esemplare di “banca compiacente”. Uno stimato imprenditore del comprensorio ceramico e uno stimato agente immobiliare utilizzano aziende di comodo per emettere assegni fasulli, chiamati “formaggio avariato”, e si affidano a lui per portarli all’incasso. Valerio trova la persona giusta nel direttore della filiale di Banca Carifirenze a Novellara, comune della provincia reggiana.

Gli assegni “avariati” e il direttore sedotto. “Andiamo a pranzo con lui e un nostro amico porta un paio di ragazze carine e disponibili. E ‘ste ragazze, piedino sotto, piedino là, questo qua comincia a perdere il lume della ragione. Poi si ragiona di aprire un conto bancario a una società, portare eventualmente sconti fattura, con il 70% consegnato subito, e questo qua dice: va beh, qual è il problema? Porta la società, la visioniamo, la giriamo, facciamo e voltiamo.”

Il gioco è fatto e la macchina del “formaggio avariato” che diventa denaro contante comincia a girare. Tanto bene che Valerio dice ai suoi complici: “Ma scusa, se noi mettiamo un assegno da 100 e me ne danno 70 subito, allora metti 200 e ce ne danno 140! Il direttore fa finta di non vedere, il vicedirettore la stessa cosa, il cassiere si piglia pure il suo, voglio dire, ma che ti frega a te”. “Alla fine”, dice Valerio, “penso che come danno gli abbiamo fatto alla Carifirenze circa 2milioni e 800mila euro. Solo io ho preso 200mila euro”.

Con o senza ragazze “disponibili” le indagini di Aemilia hanno messo in luce un numero preoccupante di sportelli bancari che accolgono con l’inchino i cassieri della ‘ndrangheta. Operazioni sospette vengono segnalate in filiali della Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza, della Banca Popolare di Verona, della Veneto Banca, del Banco San Paolo di Brescia, della Cassa di Risparmio di Cesena, della Banca Interprovinciale di Modena, oltre che nell’universo a parte degli sportelli di Poste Italiane spa.

Il funzionario teme i controlli: “Non caricare troppo…”. Il primo febbraio 2012 presso la filiale modenese della Tercas, la Cassa di Risparmio di Teramo, Vincenzo Mancuso, uomo chiave della cosca secondo l’Antimafia nel riciclaggio del denaro sporco, monetizza alcune decine di migliaia di euro che entrano ed escono dal suo conto aziendale. Un funzionario della banca gli dice in confidenza: “Enzo, con la massima serietà, non caricare troppo il fucile però… che quando uno fa troppi movimenti, troppe circolari, è inevitabile che qualcuno alzi le antenne, eh!”. Di quella banca nel 2015 sono andati a processo per associazione a delinquere, bancarotta fraudolenta e riciclaggio transnazionale l’ex direttore generale e l’ex presidente, assieme ad altre dodici persone.

Ma gli sportelli “amici” delle banche lavorano anche sull’usura. Racconta sempre Valerio che si utilizzavano due sistemi standard: il primo è un prestito che genera un interesse variabile dall’8 al 10% da pagare ogni dieci giorni. Quindi se ti presto 10mila euro, ogni 10 giorni tu mi paghi mille euro, ma il debito resta costante. Il secondo modo è sfruttare lo sconto fatture in banca: io ti presto sempre 10mila euro ma ti fatturo altrettanto e porto le fatture in banca dove mi vengono pagate salvo buon fine. Tu mi restituirai il prestito con un tasso del 20% entro i 60 o i 90 giorni di limite posto dalla banca per l’incasso.

Se la banca finananzia l’usura. In entrambi i casi è evidente che si può fare usura anche senza avere un euro in tasca, avendo una banca d’appoggio, come spiega bene Valerio al pm Mescolini: “Io pagavo alla banca l’8% annuale sui soldi che mi prestava e con quelli mi prendevo il 20% con l’usura ogni due o tre mesi, dottore. Faccia lei”.

L’altro collaboratore di giustizia del processo Aemilia, Giuseppe Giglio, il genio finanziario della cosca emiliana, l’ideatore delle complesse truffe carosello che sfruttavano le norme comunitarie europee sulle esenzioni da Iva, con le banche ci andava ancora più d’accordo dello stesso Valerio. Nel 2012 lui e la moglie Maria Curcio non hanno dichiarato redditi familiari: erano poveri senza lavoro. Ma la Direzione Antimafia di Bologna ha accertato che nello stesso anno Giglio era il reale proprietario di 245 proprietà immobiliari, 10 società, 39 polizze assicurative e infine 1008 rapporti bancari aperti in 51 diversi istituti di credito. Un bel record per un nullatenente.

Agenti penitenziari a disposizione della ‘ndrangheta. A Bologna.

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Storie dal nord che si occupa sempre troppo poco di mafia. (fonte)

 

Bologna, 10 novembre 2017 – Hanno rispettato le ‘regole’ impartite dai boss all’interno del carcere Dozza, picchiando selvaggiamente un altro detenuto che, invece, non ne voleva sapere di farsi sottomettere dai ‘padroni’ dell’ ‘ndrangheta. A loro, i militari del Ros, sono arrivati grazie ad un collaboratore di giustizia, scoprendo in questo modo l’esistenza di una gerarchia criminale all’interno del penitenziario. Sono stati arrestati all’alba di oggi due campani di 30 e 47 anni, residenti uno in città e l’altro a Bomporto coinvolti nella più vasta operazione condotta appunto dai militari del ROS e dai Comandi provinciali di Bologna, Modena e Reggio Emilia, che hanno dato esecuzione ad un’ordinanza di custodia cautelare, emessa dal gip del tribunale di Bologna, su richiesta della procura distrettuale Antimafia, nei confronti di 8 indagati, tra cui i due ‘radicati’ nel nostro territorio.

Quattro di questi devono rispondere di violenza privata e lesioni aggravate dalle modalità mafiose e gli altri quattro, tra cui due agenti della penitenziaria e due magrebini, di detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti tra le celle.

Le indagini, supportate da attività di intercettazione e da pedinamenti, sono state corroborate dalle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, il principale nell’ambito del processo Aemilia ed hanno consentito di acclarare l’esistenza di una vera e propria gerarchia criminale instauratasi tra i reclusi nella casa Circondariale ‘Dozza’ di Bologna, con al vertice elementi della articolazione di ‘ndrangheta avente epicentro nella provincia di Reggio.

Parliamo dei detenuti calabresi Gianluigi Sarcone (fratello di Nicolino, esponente apicale della cosca ‘ndranghetista operante in Emilia- Romagna, e oggetto del procedimento Aemilia) e Sergio Bolognino, entrambi finiti in carcere a gennaio 2015 nell’ambito dell’operazione antimafia che, avvalendosi della forza di intimidazione derivante dall’appartenenza alla ‘ndrangheta, avevano imposto la loro autorità agli altri detenuti, obbligandoli a sottostare, con minacce e violenze, alle loro regole di convivenza.

Da qui, a marzo, il violento pestaggio ai danni di uno dei reclusi nella sezione ‘Alta Sicurezza’, i cui mandanti sono appunto Sarcone e Bolognino mentre i ‘picchiatori’ i due campani oggi individuati e ammanettati in città.

La vittima era stata punita poiché irrispettosa e refrattaria alle disposizioni imposte, a dimostrazione della supremazia riconosciuta agli ‘ndranghetisti da parte dei detenuti contigui a clan di camorra. L’indagine ha permesso anche di accertare come due agenti della penitenziaria avessero allacciato una fitta rete di rapporti illeciti con i reclusi ai quali veniva, tra l’altro, consentito il consumo di droga. Gli agenti sono finiti ai domiciliari, così come uno dei marocchini arrestato insieme ad un connazionale proprio per la cessione di droga tra le celle.

 

TELEFONI IN CARCERE – “I telefoni in carcere li forniscono le guardie penitenziarie“. È una delle frasi messe a verbale da Giuseppe Giglio, arrestato nel 2015 nell’inchiesta di ‘Ndrangheta ‘Aemilia‘ e poi divenuto collaboratore di giustizia, citate nell’ordinanza con cui il Gip di Bologna Alberto Ziroldi ha disposto le otto misure cautelari.

In un colloquio con il Pm della Dda Beatrice Ronchi, Giglio il 28 giugno 2016 parlò dei rapporti tra poliziotti penitenziari e detenuti campani nel carcere bolognese. “Ma qualsiasi cosa avevamo necessità, un tablet, cioè qualsiasi cosa loro ci avrebbero… perché le guardie, tra l’altro, lì sono quasi tutte napoletane, attenzione! E questi qua erano di Napoli. Ah ma se lì avesse messo delle intercettazioni ne avrebbe sentito delle belle!”, disse il pentito.

E ancora, a rafforzare il concetto: “Sì, me lo disse lo stesso Sergio Bolognino (uno degli arrestati di oggi, ndr), disse in quanto diciamo le guardie sono paesani loro, cioè sono proprio dello stesso paese. Sa, ma qualsiasi cosa ci serviva, diciamo anche a… diritti penitenziari, magari ci serviva qualche cosa, tramite questi napoletani ci arriva subito”. 

MAFIE MASCHERE E CORNUTI – Intervista a Radio Popolare

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In occasione del debutto milanese di MAFIE MASCHERE E CORNUTI Ira Palmieri intervista Giulio Cavalli nel programma CULT di Radio Popolare.

 

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